«Lavoro, assumiamo gli over 50. Ma stop agli scatti»
Dopo aver guidato l’Irsa, Angelo Pasquarella è diventato imprenditore nel settore della formazione aziendale con la sua Projectland . Davanti al milione di italiani che ha perso il posto di lavoro a causa della crisi, propone alle aziende di tornare ad assumere in cambio dell’eliminazione degli aumenti di stipendio automatici. L’idea avanzata da Pasquarella, che potrebbe rappresentare il volano per ridare un’opportunità di impiego anche agli over 50, si ricollega idealmente all’articolo dedicato ai dieci profili professionali più richiesti in Italia, e arricchisce l’articolata guida sul lavoro che Wall & Street ha proposto in tre puntate: come trovare un impiego a 18 anni (i ragazzi che stanno terminando le superiori), come farsi assumere a 25 anni (i neolaureati che combattono per far notare il proprio curriculum dalle imprese) e come tornare a lavorare a 50 anni (gli operai e gli impiegati licenziati o in cassa integrazione).
Che cosa si può fare per ridare una speranza di lavoro agli over 50 rimasti senza reddito?
«La riforma Fornero ha sconvolto le prospettive di molti lavoratori che si sono visti spostare in avanti di parecchi anni la data di pensionamento. E’ un problema che non dobbiamo sottovalutare. Non possiamo permetterci aziende con persone sempre più vecchie e demotivate».
E quindi? Dal punto di vista delle imprese gli over 50 sono più una risorsa in termini di esperienza o un peso in termini di costo economico?
«Non possiamo generalizzare. Nella mia esperienza in ambito di sviluppo delle risorse umane ho conosciuto moltissimi over 50 determinati, motivati e pieni di grinta, così come ho avuto modo di incontrare molte persone più giovani che non vedevano l’ora di andare in pensione. Occorre cercare di rendere premianti i comportamenti positivi più che ritenere che siamo di fronte ad un semplice problema di età. Le aziende che si fondano sui valori del sapere, della professionalità e del merito normalmente hanno over 50 più motivati».
Che cosa pensa degli aumenti automatici?
«Si tratta di un istituto funzionale ad un’epoca ormai tramontata. Nel periodo del boom economico, anni in cui l’Italia era la Cina dell’occidente e la disoccupazione veleggiava intorno al tasso fisiologico del 5%, il premio economico all’anzianità e gli automatismi di carriera rappresentavano uno strumento efficace per garantire la continuità in servizio delle maestranze. Oggi il problema è incrementare la produttività e pertanto ogni risorsa sottratta all’incentivo al merito rallenta o addirittura impedisce il necessario orientamento dell’impresa verso le nuove sfide competitive. Penso che gli automatismi abbiano svolto un ruolo utile in passato ma che oggi siano un danno».
Quindi quale parametro utilizzerebbe per concedere un aumento in busta paga? La produttività?
«Ogni premio, a mio parere, oggi può essere rapportato esclusivamente alla produttività e possiamo immaginare un sistema che premi la produttività in due modi: la produttività di impresa in generale, attraverso i premi di produzione, e la produttività individuale verso i singoli lavoratori in base alle valutazioni dell’impresa. Le risorse per i premi alla produttività dovrebbero essere ricavate anche dall’abbandono di forme di incremento del reddito che non dipendono da aumenti di produzione. Peraltro queste risorse possono anche servire per consentire nuove assunzioni e contribuire a risolvere il problema della disoccupazione giovanile».
Come?
«Immagini di essere un capo del personale di una media o grande azienda. Ogni anno dovrebbe allocare decine o centinaia di migliaia di euro che non trovano corrispondenza in un aumento di produttività. Immagini di trasformare questo denaro in assunzioni di giovani apprendisti; probabilmente aumenterebbe senza oneri aggiuntivi la produttività aziendale e darebbe opportunità di lavoro a parecchi giovani. Il bello è che questa proposta può realizzarsi semplicemente attraverso accordi con le parti sociali, senza alcun intervento legislativo».
Quali interventi apporterebbe allo Statuto dei lavoratori?
«La domanda richiederebbe una lunga risposta, il punto è che oggi ogni soluzione non passa dalla regolamentazione giuridica quanto piuttosto dall’impulso economico che possiamo dare al mondo del lavoro. In situazioni di crisi, al di là delle dichiarazioni di principio, anche i diritti si attenuano».
Come giudica la riforma Fornero? Come la cambierebbe?
«L’economia non si riesce ad imbrigliare con le norme: non si genera occupazione per legge! Cambierei, da subito, il divieto di rinnovo di contratti a termine».
La normativa prevede per le aziende la possibilità di schiacciare la piramide decisionale, re-inquadrando i dipendenti a seconda delle mansioni effettive. Che cosa ne pensa?
«L’interessante è che il meccanismo del cosiddetto demansionamento deriva dall’accordo tra le parti sociali della fine dello scorso anno. Dimostra che è possibile raggiungere risultati anche senza l’intervento dello Stato. Penso che questa sia una strada da praticare. Di fronte all’immobilismo della politica occorre che siano anche i protagonisti dell’economia a farsi carico dei problemi dello sviluppo e dell’occupazione».
Ritiene opportuna l’introduzione di misure di defiscalizzazione degli oneri previdenziali per l’assunzione di dipendenti e di dirigenti?
«Il punto è la compatibilità con i conti dello Stato. Ogni proposta può essere buona e condivisibile, ma poi si dice che non ci sono i soldi e non si fa niente, se non continuare a parlarne. Penso che occorra fare comunque ciò che può essere fatto immediatamente, senza interventi legislativi. Torno alla proposta precedente: trasformare gli automatismi in nuove assunzioni si può fare subito, intervenendo sulla contrattazione nazionale o aziendale porta nuova occupazione immediatamente, non comporta costi ed aumenta la produttività. Il problema dei dirigenti a mio parere è un altro: in Italia quattro anni fa erano circa 150.000, oggi sono circa 100.000. Sono i meccanismi produttivi che cambiano e non siamo di fronte ad un fenomeno contingente».
Come conciliare il loro rientro in azienda, con la piaga della disoccupazione giovanile?
«Quando si dice che dobbiamo creare lavoro significa che dobbiamo lavorare sullo sviluppo e non rassegnarci a ripartire il lavoro come una torta che ci siamo rassegnati a considerare in prospettiva sempre più piccola. Dobbiamo domandarci come facciamo a rendere produttivi, ciascuno per le loro caratteristiche (esperienza ed energia), sia i vecchi che i giovani».
Cosa pensa dell’auto-imprenditorialità? Andrebbe ulteriormente incentivata?
«Qui c’è da fare veramente moltissimo. In situazioni di emergenza, come quella che stiamo vivendo, è necessario che ciascuno si domandi che cosa può fare per sostentare se stesso e per dare opportunità ad altri. Bastano poche leggi, senza costi, che vadano nella direzione di invogliare tutti, privati ed aziende, a trasformare capitale di risparmio in capitale di rischio creando nuove occasioni di sviluppo e aiutare tutti coloro che desiderano mettersi in proprio e fare qualcosa. Gli imprenditori in Italia ci sono. Si potrebbe obiettare che ogni facilitazione fiscale è sottratta alla fiscalità: non è così! Risponda a questa domanda: “Quando contribuisce fiscalmente un’azienda che non c’è ancora?”»
Che cosa pensa dell’outplacement?
«Tutto il bene possibile, peccato che da noi sia troppo spesso una specie di palliativo per indorare la pillola del licenziamento piuttosto che una tecnica per ottenere reali risultati».
Wall &Street