La recessione e i disastri provocati dalla Riforma Fornero hanno trasformato il mercato del lavoro in uno stretto imbuto, bloccato a una estremità da imprese che non assumono più mentre dall’altra tracimano uomini e donne di ogni età e istruzione in cerca di un impiego o anche di uno stipendio su cui costruire un progetto di vita.  Per farsi assumere è allora necessario dimostrare di poter dare  all’azienda a cui ci si propone «qualche cosa in più» rispetto altri pretendenti, sia nel carattere sia nel curriculum. Dopo aver visto quali sono i trucchi per superare il colloquio di lavoro, analizziamo allora quali sono gli atout verso cui guardano le imprese. «L’estero è fondamentale, a partire già dall’università. Il programma Erasmus ha rappresentato in questi anni una buona occasione per gli studenti universitari di realizzare una esperienza internazionale, formativa oltre che di crescita personale», sottolinea Cristina Pasqualini, docente di Metodologia delle scienze sociali all’università Cattolica di Milano, con cui abbiamo già analizzato quali sono le facoltà che aprono le porte del mondo del lavoro e come sfruttare gli anni trascorsi sui banchi di scuola e nelle aule universitarie per prepararsi alla vita attiva.  «Terminati gli studi universitari è fondamentale cimentarsi con una esperienza di studio post-lauream piuttosto che lavorativa in un paese più gratificante e stimolante rispetto all’Italia – penso a città come Berlino e Londra. Attenzione: la generazione dei Millennials – ovvero coloro che hanno vent’anni – sono la generazione Low cost, hanno la mobilità nel DNA, sono cresciuti con Mtv. Le reti sociali dei Millennials sono già internazionali, quindi assolutamente va incentivata questa loro propensione ad investire nell’estero, attraverso master certo, ma anche esperienze lavorative. Intervistando recentemente dei giovani imprenditori per una azione di ricerca legata al Progetto giovani dell’Istituto Toniolo, promossa questa volta dalla Camera di Commercio di Monza-Brianza, mi sono resa conto che ad andare all’estero per fare esperienza non sono solo i giovani che vogliono realizzare una start up, ma anche coloro che hanno ereditato una azienda di famiglia di successo. Questa tendenza testimonia che l’investimento in formazione qualificata è assolutamente fondamentale per continuare a crescere, per produrre benessere, per generare economica. Chi si ferma è perduto!».

 

Per trovare lavoro conta più l’esperienza o il titolo di studio?

«Attenzione: nessuno deve restare ad aspettare che qualcosa magicamente accada o cada dall’alto. Questo è assolutamente deleterio per i giovani. Credo sia necessario buttarsi nella vita, cimentarsi a fare anche piccoli lavoretti, perché ogni cosa costituisce una esperienza, che prima o poi nella vita tornerà utile. Almeno così è stato per me. Appena laureata – tra l’altro in discipline umanistiche e in una piccola università del centro Italia – ho conseguito una borsa di studio come “coordinatrice pedagogica” in un Centro Informagiovani e un Centro di Aggregazione giovanile di un Comune di medie dimensioni del Centro Italia. Lavorando all’Informagiovani ho avuto la possibilità di informare i ragazzi e di informarmi, di venire a conoscenza dell’esistenza e dell’utilità delle Gazzette Ufficiali, di tenermi aggiornata sui concorsi che uscivano. In maniera auto-imprenditoriale, mi sono iscritta a un dottorato a Milano e adesso lavoro all’Università Cattolica, dove studio i giovani e mi occupo di politiche sociali per l’autonomia e la transizione all’età adulta, avendo come interlocutori numerose istituzioni, non da ultimo ancora una volta un Comune, questa volta quello di Milano. Tutto è connesso, ogni esperienza lavorativa è utile per trovare lavoro. Perché no, anche quelle legate al volontariato. Certo bisogna avere anche i titoli di studio per aspirare ad alcune professioni, che associati ad alcune esperienze di lavoro danno una marcia in più al possibile candidato in fase di selezione».

 

Quali sono le lingue straniere più richieste?

«In Italia esiste ancora un diffuso analfabetismo per le lingue straniere per diverse generazioni, ma non per quella dei millennials, poiché attraverso molteplici canali hanno imparato a parlare inglese fin da giovanissimi. Questo è fondamentale, perché oramai quasi tutte le aziende pubbliche e private richiedono la conoscenza di una lingua straniera, il più delle volte l’inglese. Nessun mestiere è esente dalla conoscenza delle lingue. La commessa che lavora a Milano da Versace mi racconta che sta imparando il russo per adeguarsi alla nuova tipologia di clienti con cui si trova a lavorare, il cameriere della trattoria di un qualsiasi quartiere metropolitano se non conosce l’inglese non si intenderà con la maggioranza dei clienti che si troverà a servire, per accedere a un dottorato di ricerca devi sostenere una prova di lingua, se vuoi lavorare nel business internazionale, nel marketing e nel mondo della comunicazione non puoi non possedere queste competenze. Dovendo fare una stima, Almalaurea ci dice che 6 laureati su 10 parlano l’inglese, a un livello buono-intermedio, di cui un 20% addirittura ottimo-fluente. Nel confronto europeo, tuttavia, l’Italia ne esce mortificata, posizionandosi agli ultimi posti per quanto riguarda le lingue straniere: il 12% parla inglese, di contro il 30% in Germania, il 40% in Austria e il 23% in Francia. Questo almeno rileva l’indagine  Language knowledge in Europe, realizzata nel 2011. Oltre all’inglese i nostri giovani parlano in modo buono-intermedio anche il francese (20%), lo spagnolo (11%) e il tedesco (4,5%) (www.almalaurea.it). In definitiva, migliorare la conoscenza delle lingue non è vitale certo, ma dirimente. Quindi, ben vengano le esperienze di studio e lavorative all’estero, ottime occasioni, eventualmente, anche per apprendere una seconda lingua. Chi va all’estero per acquisire una lingua straniera di solito la impara, mentre chi parte per cercare lavoro, molto spesso, se non conosce la lingua, fatica il doppio ad integrarsi e a trovare una occupazione soddisfacente. Questo per dire che conoscere una lingua straniera – nello specifico l’inglese – è sicuramente un investimento sicuro, che è bene fare presto, il prima possibile, anche perché, da giovanissimi, le lingue straniere si apprendono con maggiore facilità di quando si è adulti. È una questione di elasticità mentale, ancora una volta».

 

Quanto è importante la disponibilità a cambiare città per trovare lavoro?

«Sono pochi quelli che trovano lavoro sotto casa, che possono dire di condurre una vita “casa e bottega”. Il precariato esaspera la mobilità delle giovani generazioni che passano in tempi brevissimi da una professione all’altra, da una città all’altra, da un Paese all’altro. Tutti mettono in conto di essere nelle condizioni di dover cambiare città, per alcuni tuttavia è una scelta, per altri una scelta obbligata. Noto è il fenomeno delle nuove emigrazioni giovanili dal Sud verso il Nord Italia e verso l’estero. Sono altamente qualificate: questa è la principale differenza rispetto al passato. Una volta laureati, in molti casi anche prima, lasciano la propria terra di origine, talvolta fanno anche molti chilometri per trovare il lavoro per cui hanno studiato. Il Nord e il Centro sono terre attrattive (in particolare la Lombardia), mentre il Sud, in particolare la Calabria, la Sicilia e la Campania sono terre respingenti (Rapporto Migrantes 2012, Swimez 2012). Tutto questo comporta un impoverimento progressivo e inarrestabile di alcune regioni, che stanno perdendo capitale umano prezioso, capace di innovare e quindi produrre economia. Il Sud parrebbe dimenticato a se stesso, al suo “triste” destino, se non fosse per alcune associazioni che dal basso stanno sviluppando progetti orientati al ritorno del capitale umano qualificato sui territori di origine. Penso in particolare al progetto Sud Altrove, realizzato da Libera Reggio LAB, che oggi è anche un libro online (http://terrearse.it/progetto-sud-altrove/), così come il progetto promosso daiovogliotornare (www.iovogliotornare.it), interessato non solo al rientro dei cervelli, ma a creare una connessione, attraverso una piattaforma, un social network dedicato, tra tutte le persone sparse per l’Italia e per il mondo che vogliono lavorare assieme, sviluppare progetti di innovazione sociale, destinati ai territori di origine. Il ritorno quindi può essere fisico, ma non necessariamente soltanto fisico, può essere un ritorno anche virtuale, fatto di disponibilità a distanza di mettere al servizio le proprie competenze».

 

A che cosa sono  disposti a rinunciare i giovani italiani pur di trovare un lavoro? 

«A questa domanda posso rispondere con una certa tranquillità, che mi deriva in larga misura dalla indagine Rapporto giovani curata dall’Istituto Toniolo (www.rapportogiovani.it). Il lavoro è la preoccupazione centrale per la maggioranza dei giovani, catalizza molte delle loro energie fisiche e mentali. La mancanza di lavoro, ovvero la condizione di disoccupato e precario non si addice, sta stretta a questa generazione, che è verosimilmente preparata e competente, oltre che desiderosa di fare, di mettersi alla prova. I giovani considerano il lavoro un valore, collocato a primissimi posti di una ipotetica scala gerarchica, accanto alla famiglia e alle relazioni affettive e amicali. Il lavoro ideale dovrebbe essere “dipendente” e a tempo indeterminato. Non è così importante che sia vicino casa, non è così grave che sia totalizzante, che tolga spazio al tempo libero. Questo almeno per i primi anni della “gavetta”, poi, una volta adulti, una volta che si ha una famiglia propria, lo spazio assegnato al lavoro si ridimensiona, si riconfigura, soprattutto per le ragazze. Tra un lavoro che piace ma che fa guadagnare poco e un lavoro che non piace ma fa guadagnare bene, solitamente i ragazzi intervistati rispondono che preferiscono in un primo tempo puntare al profitto, poi una volta sistemati – fondamentalmente indicano di volere una casa – si può pensare di cercare un lavoro più gratificante. Per trovare un lavoro, i giovani sono disponibili a lasciare l’Italia, il problema che molti lo fanno, ma con un biglietto di sola andata. È questa la cosa che mi spaventa di più in assoluto, che mi rattrista maggiormente: contribuire, nel mio piccolo, a formare belle teste per poi vederle costrette a spendersi altrove, perché qui, in Italia, non esistono possibilità lavorative. Quando invece, parafrasando un motto diIovogliotornare, ognuno ha il diritto di essere felice dove vuole».

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