«Creiamo posti di lavoro con i contratti Expo»
Il contratto speciale per l’Expo sarà uno strumento utile per far ripartire l’occupazione?
«Sì, sicuramente, anche se si tratta di un accordo di secondo livello tra azienda Expo 2015 e sindacati che introduce deroghe contrattuali maggiormente flessibili per i dipendenti dell’azienda e non impatta su tutto il possibile indotto che potrà generare l’evento. Insomma non è un accordo che impatta sulle aziende o esercizi commerciali come bar, ristoranti, hotel che potranno essere coinvolti».
Il fatto che sia frutto di un’intesa locale tra Expo e sindacati potrà limitarne la valenza?
«Come dicevo lo strumento della contrattazione di secondo livello è uno strumento ottimale per affrontare eventi e situazioni eccezionali però nello specifico l’accordo rimane un intervento circoscritto all’azienda Expo spa. Si tenga presente che per Expo 2015 si stima arrivino in Italia circa 22 milioni di persone che andranno accolte. In questo senso non è possibile affrontare al meglio questa opportunità con strumenti ordinari. Mi sembra dunque che si debba fare qualcosa in più ed estendere tale accordo a tutte le aziende direttamente od indirettamente coinvolte».
Che possibilità c’è che le deroghe rispetto ai farraginosi e antiquati contratti nazionali a livello di contrattazione di secondo livello diventino la regola e non l’eccezione?
«Sicuramente oggi più che mai è necessario realizzare un nuovo sistema di relazioni industriali che persegua obiettivi concreti volti a creare migliori condizioni di competitività e produttività. Credo che questo percorso se pur a rilento sia avviato anche attraverso maggiore disponibilità da parte dei sindacati. In tal senso si può citare l’accordo del 16 novembre scorso tra le principali associazioni datoriali e dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dove è stata firmata un’intesa a livello interconfederale recante le “linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”, il cosiddetto “accordo sulla produttività”».
La vera novità è la possibilità di assumere a termine l’80% dell’intera forza lavoro. Perché non approfittarne per scardinare le barriere alla flessibilità in entrata?
«Ritengo questa misura importante ed estendibile in via però eccezionale. Si potrebbe cioè adottare questa deroga in maniera straordinaria e solo per un certo periodo. Ciò che a mio parere, invece, risulta oggi fondamentale è quello di adottare misure veramente strutturali e d’insieme. Si pensi ad esempio alle mancate misure in tema di apprendistato e non solo in riferimento a quello professionalizzante ma anche all’apprendistato scolastico e all’apprendistato di alta formazione. Insomma manca totalmente la visione di un apprendistato visto come percorso strategico del sistema educativo di istruzione e formazione professionale che dimostra i veri limiti nel creare un sistema stabile di incontro tra domanda e offerta di lavoro per i giovani».
Si creano tre nuove figure di apprendisti: operatore, specialista e tecnico. Perché non ampliare già da adesso la differenziazione delle figure di apprendisti in modo da facilitarne l’utilizzo?
«È modello che va cambiato ed in quest’ottica lo specifico accordo su Expo 2015 può essere un momento di grande sperimentazione. Ciò che risulta determinante è fissare degli standard professionali e formativi visti nell’ottica dei fabbisogni professionali attuali e potenziali espressi dal mercato del lavoro. Non si può ridurre il contratto di apprendistato ad una mera assunzione agevolata che peraltro sarebbe in qualche modo cannibalizzata da altre forme contrattuali».
Gli stagisti saranno retribuiti 516 euro al mese (più 5,29 euro quotidiani di buoni pasto). È una paga bassa? Se sì, è meglio la disoccupazione allora?
«Dipenderà dalla vera utilità al di là della remunerazione che il giovane potrà valutare nell’effettuare il tirocinio e dalle opportunità future che potrà ricavarne. Importante è definire un preciso percorso di apprendimento certificabile ex post da sedi abilitate a validare le competenze maturate che il giovane potrà spendere successivamente nel mercato del lavoro. Il tirocinio di per se è un investimento del giovane e per essere appetibile deve dare un valore aggiunto concreto in termini di orientamento al lavoro e di opportunità occupazionali».
Secondo lei, perché prima dell’accordo sui contratti raggiunto da Expo, il governo si è «spaventato» e ha demandato all’intesa tra le parti sociali la stesura di questa nuova forma di contratto?
«A tal proposito bisogna partire da un assunto generale: solo una minima parte delle misure contenute nel decreto è immediatamente operativo, il che risulta paradossale per un intervento straordinario adottato con il meccanismo del Decreto Legge. Le sorti del provvedimento sono in effetti per buona parte affidate ad un attivo e responsabile coinvolgimento dei Ministeri, delle Regioni e delle istituzioni locali. C’è stato complessivamente quindi un notevole scarto tra gli annunci e le promesse fatte e quello che poi è rientrato nel decreto per la verità a volte in maniera confusa e per certi versi contraddittoria tra le varie misure. Per la verità tutto sommato vista la prima bozza di decreto l’aver tolto all’ultimo momento le misure sul piano straordinario per Expo 2015 è stata una cosa buona. Questa presentava infatti almeno due elementi alquanto discutibili l’uno di carattere metodologico e l’altro di contenuto».
A quali aspetti si riferisce?
«Il primo poneva una questione relativa al fatto che approvare un incisivo pacchetto di interventi normativi sul lavoro non preventivamente condiviso e concertato tra le parti sociali sarebbe stato un problema visto che poi tali misure avrebbero dovuto, per essere rese esecutive, comunque passare dal meccanismo della concertazione. Il secondo è il fatto che con un comma poi stralciato tali contratti individuali avrebbero dovuto passare il vaglio di un’apposita commissione costituita ad hoc composta dai sindacati e dalle associazioni datoriali. Oltre agli aspetti legati alle ricadute sulle tempistiche e modalità per la costituzione di tali commissioni sfugge il senso di vincolare questi contratti ad una certificazione ulteriore rispetto ad una validazione già data da parte della contrattazione collettiva».
Piuttosto che puntare sullo “Statuto dei Lavoratori” non è meglio abrogare l’articolo 2103 del codice civile in modo tale da rendere più flessibile al suo interno e non farsi bloccare dal dogma dell’equipollenza delle mansioni?
«Sono d’accordo anche per una questione di opportunità. Spesso attorno allo Statuto dei Lavoratori si sono create delle battaglie ideologiche che hanno ingessato le parti nel percorso della riforma del mercato del lavoro. Una modifica allo Statuto dei Lavoratori non la considero una priorità. Bisogna incominciare a pensare ad un rapporto di lavoro che sia strutturalmente flessibile, ma anche strutturalmente stabile. Si deve coniugare la stabilità del rapporto con la flessibilità all’interno del rapporto stesso. Viviamo in mondo estremamente dinamico dove le aziende devono innovarsi, riorganizzarsi rapidamente quindi un modello di lavoro fisso nel tempo è decisamente anacronistico».
Mansioni fungibili e spostamento dei lavoratori da una sede all’altra dell’azienda come negli Usa sono un’utopia in Italia?
«Se il nostro Paese vorrà competere dobbiamo arrivarci. Grande responsabilità in questo senso la hanno i datori di lavoro ed i sindacati. Solo attraverso accordi collettivi, soprattutto territoriali e di secondo livello, possono nascere sperimentazioni positive in questo senso. È da il confronto delle parti sociali che deve partire questa rivoluzione culturale».
Come si aumenta la produttività? Rimodulando i salari o aumentando la flessibilità?
«Di certo non si aumenta la produttività solo con norme straordinarie come introdurre limitate misure di incentivazioni all’assunzione o liberalizzando il contratto a termine oppure rendendo strutturalmente precario il rapporto di lavoro. Una flessibilità “buona” è necessaria soprattutto intesa come nuova concezione di intendere il rapporto di lavoro. Bisogna di certo entrare più nel merito e capire le varie esigenze territoriali, dei vari settori produttivi e delle singole aziende. Legare i salari alla produttività aziendale, incentivare meccanismi di welfare aziendale, abbassare il costo del lavoro e ridurre gradualmente l’irpef sui salari più bassi sono tra gli interventi che a mio parere rimangono tra le principali priorità per il rilancio della crescita e dell’occupazione».
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