09Mag 14
«Il Jobs Act di Renzi è l’ennesima occasione mancata»
Pubblichiamo una riflessione di Sergio Carbone, direttore generale di Projectland ed esperto di organizzazione aziendale, sulle linee guida del Jobs Act di Matteo Renzi. Si tratta di una visione imparziale e disillusa di una proposta che avrebbe potuto rappresentare una svolta per la crisi occupazionale italiana e che invece si sta trasformando in un puzzle senza visione strategica e, quindi, del tutto inutile.
La mia mente, infatti, andò subito inevitabilmente a due provvedimenti di analoga denominazione che avevano visto impegnato il Presidente degli Stati Uniti Barak Obama: l’American Jobs Act del 2011 e il successivo JOBS Act del 2012, entrambi, a mio parere, fortemente orientati a fornire risposte decisive in tema di occupazione in quanto perfettamente in grado di andare alle cause reali del problema, attraverso la capacità di interpretare le dinamiche del sistema economico.
Di questi provvedimenti, mi avevano colpito la visione strategica ed il focus su cui insistevano le misure proposte, perfettamente aderenti al contesto economico ed ai principali trend di sviluppo di quella nazione. Mi spiego meglio. Con l’American Jobs Act, Obama aveva proposto un massiccio piano di sgravi e di tagli, da un lato, e di incentivi e investimenti dall’altro, avendo come punto di riferimento il sistema economico, i suoi problemi e le sue aspettative. Si trattava di un piano da circa 500 miliardi di dollari (quasi un terzo del nostro Pil!), finalizzato a ridurre l’imposizione fiscale sul lavoro, promuovere incentivi retributivi e all’assunzione delle fasce più critiche di disoccupati e di sostegno per il reinserimento nel mondo del lavoro. Il successivo JOBS Act (Jumpstart Our Business Startups Act) mirava, invece, a promuovere lo sviluppo di startup, introducendo meccanismi di semplificazione per le nuove imprese, favorendo il reperimento di fondi ed i sistemi di crowdfunding, incentivando l’afflusso di capitali privati verso le imprese emergenti, facilitando l’accesso ai capitali a quelle imprese che creano nuova occupazione. In altri termini: la tassazione, la riqualificazione, l’afflusso di capitali, l’accesso al credito, la burocrazia sono i veri problemi che limitano l’occupazione? Bene, allora interveniamo su questi problemi con misure concrete atte a risolverli.
Immaginavo che la denominazione del provvedimento italiano non fosse casuale e che intendesse ricollegarsi, con forza, alla visione determinata e concreta dei problemi legati all’occupazione che caratterizzavano i due precedenti Jobs Act promossi oltre oceano e le misure conseguentemente proposte.
Assisto in questi giorni alle discussioni parlamentari su un documento che ritengo rappresenterà l’ennesima occasione mancata.
Il fil rouge che lega tra loro tutti gli interventi proposti e finora noti (su questo e su altri temi, è ormai chiaro che il governo navighi a vista e centellini le evidenze sui propri indirizzi), viaggia su considerazioni di natura normativa e non di visione strategica rispetto alle dinamiche del sistema economico: tempi diversi per i contratti a tempo determinato e diverse modalità di rinnovo, riduzione dei vincoli in tema di apprendistato e diversa disciplina delle retribuzioni, diversa regolamentazione del Durc (dichiarazione unica di regolarità contributiva; ndr) e poi ammortizzatori sociali, pubblica amministrazione e incentivi alle imprese per i quali vale la locuzione “vi faremo sapere”. Tutto questo, al netto di una Legge Fornero ancora in vigore e di cui non è chiaro cosa rimarrà, degli esodati senza risposta, di una cassa integrazione anacronistica che non tutela l’occupabilità e brucia risorse pubbliche, di un sistema di orientamento al lavoro praticamente inesistente, di un sistema di centri per l’impiego che brucia anch’esso risorse pubbliche e che non è affatto in grado di intercettare domanda e offerta di lavoro, di uno scollamento desolante tra mondo dell’istruzione e mondo del lavoro, di allarmanti trend di emigrazione per ragioni legate al lavoro, di delocalizzazione di imprese per ragioni burocratiche e fiscali, di un sistema creditizio che strangola gli imprenditori, di recenti provvedimenti in tema di riduzione del cuneo fiscale che sembra saranno pure “una tantum”.
Ma il dato più allarmante non risiede nel contesto caratterizzato da gravissimi problemi quanto nel metodo con cui ancora oggi si cerca di affrontarli: ossia, in questo caso, la convinzione di fondo che i problemi del lavoro si possano risolvere per via normativa, aggiungendo o modificando cioè qualche regoletta sui contratti, e non incidendo pesantemente invece sulle cause di natura economica che rappresentano la principale e reale ragion d’essere del problema stesso».
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