Tempi duri per i furbetti dell’imitazione
La Cassazione, con una recente sentenza, ha ristretto ulteriormente i margini di manovra per chi pratica la concorrenza sleale e l’imitazione dei prodotti altrui. Una società attiva nel settore della produzione e commercializzazione di impianti di illuminazione ha realizzato una pubblicità comparativa attribuendo ai propri prodotti pregi e caratteristiche di prodotti di un’altra società concorrente. Quest’ultima si è rivolta all’autorità giudiziaria, denunciando che tale condotta poteva configurarsi come concorrenza sleale (diffondere notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, oppure appropriarsi di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente). Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello condividevano la tesi della seconda società e condannavano l’impresa denunciata al risarcimento dei danni.
La società soccombente ha proposto ricorso in Cassazione, affermando l’assenza di confondibilità dei prodotti confrontati e sosteneva che la pubblicità che poteva confondere aveva in realtà mera funzione descrittiva, mentre il Codice Civile censurerebbe solo i casi in cui i prodotti vengono presentati come simili o identici a quelli del concorrente. La società sottolineava inoltre come i prodotti della concorrente erano comunque privi di tutela brevettuale. La Cassazione ha rigettato le tesi della ricorrente e confermato la decisione impugnata. Infatti il Tribunale aveva stabilito che la società condannata aveva presentato i propri prodotti come simili a quelli di un concorrente noto, sfruttandone la rinomanza e gli standard qualitativi da quelli raggiunti, nonché usandone indebitamente il marchio famoso: in questo modo la società aveva potuto accreditare i propri prodotti presso la clientela senza sforzi di investimento.
La corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta tenuta dalla predetta società non rappresenti semplicemente un caso di «imitazione servile»cioè la concorrenza sleale che si pratica con l’imitazione fedele e pedissequa dei prodotti di un concorrente tale da creare confusione nel pubblico sulla provenienza degli stessi. L’imitazione servile deve riguardare le parti appariscenti o comunque esterne del prodotto, mentre ne sono escluse tutte le forme idonee a costituire oggetto di protezione brevettuale. Perché si possa ravvisare concorrenza sleale per imitazione servile dei prodotti altrui, non è necessario che i prodotti imitati siano protetti da brevetti, poiché l’obbligo di differenziare i propri prodotti rispetto a quelli già esistenti sul mercato ricorre anche al di fuori di queste ipotesi di tutela. Questo per evitare che il consumatore medio possa essere tratto in inganno e, credendo di acquistare un determinato prodotto, ne acquisti, invece, un altro similare di diversa provenienza. «Nel caso di cui stiamo parlando la società non ha semplicemente realizzato prodotti imitando le forme e gli aspetti distintivi di quelli realizzati dalla concorrente, al fine di creare confusione con quelli messi in commercio da quest’ultima, ma ha presentato al pubblico dei consumatori prodotti propri, attribuendone però virtù tipiche e caratteristiche di quelli realizzati dalla concorrente», spiega Claudio Gandini, avvocato milanese specializzato in tutela della proprietà intellettuale.
«Nel caso in esame la pubblicità comparativa realizzata dalla ricorrente non era volta a denigrare i prodotti altrui, ma anzi mirava ad “agganciare” indebitamente i propri prodotti all’altrui notorietà, generando comunque confusione presso i consumatori e contaminandone i criteri di scelta», aggiunge. Da qui l’ipotesi di concorrenza sleale per appropriazione di pregi, ove per pregio si intende una dote o qualità positiva del prodotto, riconducibile alle sue caratteristiche o al suo processo produttivo, o al suo luogo di provenienza, nel caso in cui questo sia determinante ai fini delle qualità.
«In questo modo, ed è confortante, si è smontato un sistema “subdolo” e meno costoso di accaparrarsi clienti da parte di chi millantava caratteristiche che in realtà i propri prodotti in vendita non avevano, ma che erano invece specifiche e unanimemente riconosciute ai prodotti realizzati dalla concorrente», conclude Gandini.
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