Per la Cina il 2018 è stato un anno complicato ma fruttuoso. Sebbene il Pil sia cresciuto “solo” del 6,5 per cento — il dato più basso dal 2009 — la Repubblica popolare ha retto senza troppi danni (almeno apparentemente) l’offensiva di Trump e prosegue nella sua espansione economica, politica e militare. Ovunque e comunque. Con pragmatismo e spregiudicatezza, senza più alcun timore — come incita il presidente “eterno” Xi Jinping — di «osare, di avere grandi ambizioni». Una strategia di lungo periodo che gradualmente sta modificando gli assetti geopolitici e geoeconomici mondiali.

L’obiettivo ormai esplicito è conquistare il primato globale entro trent’anni. Attenzione, non si tratta di fantapolitica o fantaeconomia ma di immediato futuro. Come scrive lo studioso Willy Lang dell’Università di Hong Kong «nel prossimo decennio il Pil della Cina dovrebbe superare quello degli Stati Uniti e l’Esercito Popolare di Liberazione prevede di ridurre il divario con le Forze armate statunitensi, ma il traguardo è raggiungere lo stato di superpotenza entro il 2049 — anno dalla portata simbolica perchè centenario della nascita della Repubblica — raggiungendo gli Usa nella maggior parte degli indicatori usati per stimare la potenza di una nazione» (Limes n. 8/2018).

Il fatidico 2049, quindi, come coronamento ultimo di una paziente quanto irresistibile “lunga marcia” intrapresa un trentennio fa da Deng Xiaoping, il padre delle riforme post-maoiste. Nel tempo, riprendendo il mai dimenticato principio taoista dello “sforzo inverso” — ottenere molto facendo poco, in un logoramento strisciante e continuo degli avversari — la Cina ha prima consolidato le proprie posizioni nel Mar Meridionale, il cortile di casa, per poi creare una grande Marina militare e mercantile che si appoggia sull’efficace rete d’alleanze e d’influenza estesa dall’Asia meridionale e all’Oceano Indiano. È la strategia della “collana di perle”, un lungo filo in cui Pechino ha inanellato lo Sri Lanka, la Birmania, il Bangladesh, le Maldive, il Pakistan e ora Gibuti in Africa, prima base militare del Dragone fuori dal territorio nazionale. Un risiko complesso quanto micidiale.

L’investimento gibutino — prezioso avamposto sul Mar Rosso — fissa l’ulteriore tassello delle nuove geografie sino-africane ed è parte di un disegno ancor più grandioso. Spieghiamo. Negli anni, approfittando del disimpegno europeo, i cinesi hanno creato in Africa un network logistico transafricano — 6500 chilometri di ferrovie, 6mila di autostrade, 200 scuole, 80 stadi, centri finanziari, porti e aeroporti, linee di telecomunicazioni — pienamente sinergico ai piani del “celeste impero”. Somme enormi, investimenti pesantissimi perfettamente prodromici all’avvento della ormai prossima egemonia gialla sul continente nero. La fase due — un vero e proprio work in progress — è iniziata lo scorso settembre con il vertice sino-africano di Pechino. In quell’occasione 53 capi di Stato sono stati invitati ad confortevole incontro nella “città proibita” e sono ripartiti con l’impegno cinese a investire nei loro paesi altri 60 miliardi di dollari. Uno sforzo potente e una mossa inattesa che hanno lasciato sbigottiti e frastornati tutti gli analisti occidentali.

A sua volta la conquista soft dell’Africa s’intreccia con la BRI ovvero la Belt and Road Initiative, la “nuova via della seta”, una formidabile offensiva politico-commerciale che coinvolge al momento oltre 80 nazioni e si appresta con tutta la sua forza da investire il Mediterraneo — l’ex mare nostrum — l’Italia e l’intera Europa. Un progetto articolato e plurale, forte di investimenti massicci e una programmazione efficace con un obiettivo chiaro: le nostre economie, le nostre sovranità. Per Gian Micalessin la BRI altro non è che «un’incredibile matassa che entra nel Mediterraneo, penetra l’Europa e l’avvolge. È capace d’arricchirla ma anche di trasformarla in una nuova periferia dell’impero cinese. È lo scenario della guerra commerciale con cui Pechino punta ad impossessarsi dell’Europa, controllando rotte commerciali, porti e merci» (Il Giornale , 7.12, 2018). Uno scenario inquietante ma reale.

Il punto di partenza è il 2010 quando la Cosco (China Ocean Shipping Co.) rileva a prezzi di saldo il Pireo, il principale porto ellenico. L’Unione Europea e la Germania, troppo impegnate a vampirizzare la Grecia, se ne fregano e danno il consenso. Poi nel 2013 i cinesi intervengono in Egitto puntellando con inezioni di soldi il regime laico-militare. In cambio il presidente al-Sisi concede a Pechino un’enclave industriale free tax nella zona del Canale di Suez — la China Egypt Suez Economic and Trade Zone —, e affida a Cosco la gestione della Suez Canal Container Terminal che diventa una piattaforma tutta cinese. Una scelta mirata: dal 2001 ad oggi i volumi delle merci che attraversano il Canale fanno del Mediterraneo lo sbocco principale del 19 per cento del traffico globale; il 56% delle merci che utilizzano l’idrovia raggiunge il cuore d’Europa. I conti sono presto fatti.

Ma i mandarini rossi sono insaziabili e il denaro non fa schifo a nessuno. Dopo il Pireo — ormai il perno della penetrazione gialla in Europa, da collegare via treno a Belgrado e Budapest — la Cosco ha acquisito partecipazioni importanti nel porto di Kumport (Turchia), Ashod (Israele), Tangeri (Marocco), Cherchell (Algeria) Valencia e Bilbao (Spagna), Marsiglia (Francia), Zeebrugge (Belgio) rilevando il conrollo del 10 per cento del movimento contaneir del Vecchio Continente.

Ovviamente anche l’Italia settentrionale è nel mirino degli investitori cinesi. Genova, Savona-Vado Ligure e La Spezia hanno creato la Ligurian Port Alliance per attrarre il made in China e Cosco è azionista della piattaforma di Vado, un terminal contaneir che presto sarà in grado di movimentare 900mila teu l’anno e accogliere le portacontaneir da 20mila Teu. Ma la Cina punta soprattutto a Trieste. Lo scalo giuliano oltre agli ottimi fondali è l’unico porto europeo che gode di extraterritorialità dogale ed è collegato via treno all’Europa centrale e orientale. In cambio delle quote di maggioranza, i cinesi sono pronti ad investire sulla città di San Giusto oltre un miliardo di euro.

Per il governo giallo-verde (e l’Unione Europea) si apre un problema pesante: accettare le allettanti proposte degli emissari di Xi Jinping o imporre condizioni eque e rispettose della sovranità. Il sottosegretario Giorgetti ha ribadito più volte che l’Italia manterrà a tutti i costi il controllo dell’infrastruttura appoggiandosi — paradosso tra i paradossi — alla recentissima quanto tardiva decisione della Commissione Europea di attuare misure di controllo sugli investitori stranieri intenzionati «a comprare porti europei, parte di infrastrutture energetiche o sigle della difesa». Meglio tardi che mai.

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