Dopo 106 anni Parigi e la Francia ricordano il “Metz Yagern”, il “grande male”, lo sterminio degli armeni cristiani per mano dei turchi. Con una grande mostra, “Le Gènocide des arméniens de l’Empire ottoman”. Una rassegna importante. Per più motivi.  Innanzitutto per il tema e il luogo: una memoria a lungo relegata all’interno della diaspora armena — custodita dai religiosi e dagli intellettuali e rivendicata in solitudine dalla fragile repubblica di Erevan — si dispiega significativamente nel Memoriale della Shoah di Drancy, un luogo fortemente simbolico. Due terribili tragedie del Novecento, il secolo crudele, si specchiano e si integrano in un percorso finalmente condiviso di dolore e ricordo. Un cerchio che si chiude su un dato forte e per nulla scontato, poiché per tanto, troppo tempo dell’olocausto armeno, “l’Aksor”, pochissimo si è parlato e poco si è studiato e approfondito.

L’indifferenza è l’anticamera della rimozione, la premessa dell’oblio. Gli armeni — questo piccolo, nobile popolo disperso tra il Caucaso e il mondo — lo sanno bene. Il muro di silenzio ha iniziato a incrinarsi solo il 18 giugno 1987 quando il Parlamento Europeo ha infine riconosciuto il genocidio ponendo, inoltre, quale precondizione all’adesione della Turchia alla Comunità Europea il riconoscimento dello sterminio. Almeno una volta l’Europa burocratica di Bruxelles è stata all’altezza della storia del Continente che sostiene di rappresentare.

Per i governi di Ankara uno smacco e una condizione inaccettabile. Agli occhi degli eredi di Ataturk il massacro di più 1.200.000 cristiani (il numero è ancora incerto) era ed è un dettaglio e gli armeni un fastidio, un ingombro. In patria solo accennare al genocidio significa infrangere l’articolo 301 del codice penale che punisce chi offende l’identità turca. Lo sa bene il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk che per aver sfiorato nei suoi libri la questione è incorso nelle ire delle istituzioni. Inutile inoltre aggiungere che chiunque nel mondo sollevi il problema è considerato un nemico giurato della Turchia. Eppure il “Metz Yageren” non è una fantasia, non è una fake news. È sangue e sofferenza, terrore e morte. Esilio.

Commemorando nel 2015 il centenario della grande mattanza il patriarca ortodosso Karekin II ha ricordato come «i turchi ottomani hanno commesso un genocidio contro il nostro popolo» facendo sì che «nostri figli e figlie hanno subito uccisioni, carestie e malattie: sono stati deportati e costretti a marciare fino alla loro morte». Il religioso ha precisato che «l’Armenia occidentale, dove per millenni – dal tempo di Noè – il nostro popolo ha vissuto, creato e costruito la sua storia e cultura, è stata privata della sua popolazione nativa». Chiese e monasteri «dissacrati e distrutti», scuole «rase al suolo e rovinate».

Ma, nonostante tutto, «il nostro popolo è risorto dalla morte e su una piccola parte ha ripristinato lo Stato, ricreato un Paese dalle sue rovine e vestigia, costruito una patria di luce e di speranza, di scienza, istruzione e cultura». Concludendo il pontefice degli armeni ha ringraziato il Signore che ha voluto che «la nostra gente – condannata a morte da un piano genocida – sia riuscita a vivere e risorgere, in modo da poter presentare questa giusta causa davanti alla coscienza dell’umanità e al diritto delle genti, per liberare il mondo dalla callosa indifferenza di Pilato e dalla negazione criminale della Turchia».

Parole durissime riprese da papa Bergoglio nell’incontro con il patriarca. Ricordando la storica visita di Giovanni Paolo II in Armenia nel 2001, Francesco ha scandito con rara chiarezza una frase inequivocabile: «Quello degli armeni è stato il primo genocidio del XX° secolo e ha colpito il vostro popolo, prima nazione cristiana». Ancora una volta Erdogan non ha gradito.

Una piccola patria tra tre imperi

 

Montagne altissime coperte da foreste, monasteri simili a fortezze, altopiani impreziositi da grandi laghi, colline decorate da vigneti, città e borghi in cui le brutture sovietiche convivono accanto a splendide architetture medievali, deliziosi ristorantini che offrono una cucina magnifica. Sullo sfondo il mitico Ararat, il luogo dove si adagiò l’Arca alla fine del diluvio, e il dramma del Nagorno Karabakh — per gli armeni l’Artsakh, un pezzo di Patria — con la guerra ad intermittenza con gli azeri. Mito, spiritualità e altra, nuova sofferenza. È l’Armenia che conosciamo, la piccola repubblica indipendente dal 1991 dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, vasta appena 30mila chilometri quadrati e popolata da 3.200.000 abitanti. Un fazzoletto incastonato tra Asia ed Europa, stretto tra tre aree che per secoli hanno coinciso con tre grandi imperi: quello romano, bizantino, quindi ottomano, e oggi turco; quello zarista poi sovietico e russo; quello persiano e, oggi iraniano sciita. Una posizione scomodissima.

In più la storia di questa realtà è ben più grande e intricata dei suoi attuali confini. Ripercorrendo la complessa vicenda armena vi sorprenderete, come avverte Franco Cardini, «a non esservi accorti prima della sua importanza. Fece il suo ingresso nella storia antica come sede del regno hurrita di Urartu, fra il IX e VII secolo sede di una popolazione d’idioma indoeuropeo finì sotto la dominazione dei medi, dei persiani achemenidi e quindi di Alessandro. Dalla sconfitta del re greco siriaco Antioco II germogliò infine la grande Armenia». Un complesso statuale che funse per secoli da punto d’incontro e camera di compensazione tra l’impero romano e il mondo ellenistico e quello parto-persiano.

Nel 301 d.C. il Cristianesimo divenne, in largo anticipo su Costantino e i suoi editti, religione di Stato. Dal 405 le Sacre scritture vennero trascritte nell’alfabeto — 36 lettere: 7 vocali e 29 consonanti —creato dal monaco Mesrop Mashtots, un passaggio fondamentale che ha consentito nei secoli alla lingua armena di tramandarsi e impreziosirsi diventando, grazie alle “scuole di scrittura”, un simbolo dell’identità nazionale e una corazza efficace contro i continui tentativi d’assimilazione. Una curiosità. Gli armeni colsero molto presto le opportunità offerte dall’invenzione della stampa. E Venezia giocò un ruolo fondamentale per la conservazione e la diffusione della cultura armena: nel 1511 nella città lagunare fu stampato il primo libro ad opera dell’editore Hakob detto “Meghapat”: si tratta di una raccolta di massime, proverbi, informazioni e consigli utili ad uso soprattutto degli uomini di mare intitolato “Urbat’agirk”, ovvero “Il Libro del Venerdì”.

Torniamo all’alto Medioevo. La prima crociata segnò l’inizio di un fruttuoso interscambio tra l’Armenia — estesa dalla Cilicia mediterranea sino al Caspio — con l’Occidente. Riprendendo Cardini «in tale contesto l’Armenia, innervata da importanti vie di commercio, ebbe modo di collegarsi al Sacro Romano Impero e al regno di Cipro dei Lusignano e più tardi — grazie ai contatti con alcuni principati mongoli — avviò un rapporto strettissimo con i cavalieri di San Giovanni (poi di Rodi) e poi con i genovesi ma anche con i veneziani».

Alla caduta nel 1291 di San Giovanni d’Acri, ultima capitale crociata, seguì presto il tracollo, nel 1375, del regno di Cilicia e gli armeni si ritrovarono senza patria. Nondimeno la comunità, come ben spiegato da Aldo Ferrari e Giusto Traina nel loro ottimo libro “Storia degli Armeni” (Il Mulino, 2021), riuscì a convivere (e a prosperare) anche all’interno dell’impero ottomano sino a metà dell’Ottocento. L’affacciarsi della Russia, autonominatasi paladina dei cristiani d’Oriente, l’indipendenza della Grecia e il parallelo decadimento dell’autorità sultaniale — garante, a suo modo, delle minoranze e delle loro autonomie — aprirono la strada a nuove devastanti forze.

L’olocausto di un popolo

 

Lo scoppio della Grande Guerra fornì l’ennesimo, definitivo pretesto per lo scatenamento dell’”Aksor”, l’annientamento della folta comunità armena — considerata una “quinta colonna”, in quanto cristiana e benestante, della Russia ortodossa e zarista —e la repressione delle altre minoranze non islamiche.

Per gli armeni non ci fu alcuna pietà. Il 24 aprile 1915 i residenti nella capitale furono arrestati in massa e pochi giorni più tardi Enver Bey, ministro della Guerra, dava inizio alla deportazione forzata di tutta la popolazione — donne, bimbi e anziani compresi — verso la remota provincia di Deir el-Zor, un buco fetente nel deserto siriano.

Fu l’inizio di un’interminabile marcia della morte. Il venezuelano Rafael de Nogales, singolare figura di mercenario al servizio del sultano, raccontò scene orrende: «Alle porte di Siirt, su un pendio vicino, come neve sul fianco di una montagna, giacevano migliaia di cadaveri di armeni, mezzi nudi e sanguinanti, ammucchiati in pile o intrecciati nell’abbraccio finale della morte». Coloro che riuscirono ad arrivare in Siria, spesso soccombettero alla sete e alla fame nei pressi della ferrovia per Baghdad, sulla quale in pochi potevano permettersi un passaggio. Un viaggiatore raccontò d’aver visto almeno «mille armeni morti durante le ore diurne del suo viaggio, a terra accanto ai binari». Anche le vie carovaniere offrivano una visione spaventosa, con interi tratti «ricoperti da corpi in decomposizione».

Una delle testimonianze più intense arriva dal diario di una donna, Serpouhi Hovaghian, nata nel 1883 nell’Armenia anatolica e sopravvissuta miracolosamente alla morte. Una storia romanzesca. Nel 2014 la nipote Anny Romand, affermata scrittrice francese, scoprì il diario riordinando le cose di famiglia: 70 pagine in armeno, francese e greco, vergate tra il 1915 e il 1917. Il momento più buio. Con pazienza e infinito amore la Romand ha tradotto e riordinato le note trasformandole in un libro commovente e profondo, “Mia nonna d’Armenia” (ora editato in Italia da La Lepre edizioni).

L’anabasi di Serpouhi iniziò con il saccheggio della casa di famiglia e la fucilazione del marito. Le donne furono incolonnate in interminabili carovane. Giorni, settimane di cammino attraverso l’orrore: «Di fianco scorreva l’Eufrate, lunghissimo: in ogni momento pensavamo che ci avrebbero buttato dentro. Nel fiume avevano scaricato due carretti pieni di bambini. Questa scena ce l’avrò per sempre davanti agli occhi […]  Vedendo i corpicini di quei piccoli in acqua, le gambe che ancora si muovevano, sono rimasta completamente sconvolta, e ancor più quando ho visto quei mostri guardarli con un sorrisino sarcastico. Oh Dio mio, ti scongiuro lasciami vivere per vedere quegli infelici vendicati». Ce la farà. Dopo altre terribili avventure raggiungerà la Francia. La salvezza. Dal suo rifugio madame Serpouhi avrà certamente saputo dell’operazione Nemesi, organizzata da Armen Garo, il rappresentante degli armeni alla conferenza di pace di Parigi.  La vendetta a lungo attesa.

Alla fine della prima guerra mondiale le potenze vincitrici costrinsero il governo turco a processare, per crimini di guerra, i leader del CUP, responsabili dello sterminio dei cristiani armeni e siriaci (un capitolo questo ancora non indagato…). Un tribunale militare condannò i capi del CUP alla pena capitale quando già avevano lasciato il Paese. Tutti contumaci e intoccati. Una beffa atroce.

Ma sulla via dell’esilio gli antichi padroni della Turchia trovarono tutti la morte per mano di giustizieri armeni. Il 15 marzo del 1921 a Berlino lo studente Soghomon Tehlirian sparò un colpo di pistola alla nuca di Tal’at Pascià. Processato da un tribunale tedesco, fu ritenuto “non colpevole” e assolto. Il suo difensore, l’avvocato Gordon, nell’arringa scandì con forza la sua denuncia: “Ogni persona dovrebbe sapere che durante il governo di Tal’at fu versato un mare di sangue, almeno un milione di armeni tra bambini e donne, vecchi e uomini. Se si è aggiunta una nuova goccia di sangue dobbiamo consolarci dicendo che è nostro destino vivere in tempi terribili».

Analoga sorte toccò a Cemal Bej, il secondo dei “triumviri” autori del genocidio, raggiunto e giustiziato a Tbilisi, in Georgia, da un altro giovane armeno. Ed armeno era pure il comandante del reparto bolscevico che il 4 luglio 1922 uccise Enver Pascià, che capeggiava un’impossibile rivolta turco-islamica contro i sovietici nella regione di Bukhar, nell’Asia centrale. Ultima curiosità. Nelle tavole de “La casa dorata di Samarcanda”, Hugo Pratt — il grande artista veneziano, appassionato d’Oriente e intrigato dai segreti massonici — ricordava l’ultima cavalcata di Enver contro le baionette armene. Nel segno della tragedia e (forse) dei compassi. Chissà?

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