Emilio Cecchi, grande, grandissimo critico letterario del Novecento, non ebbe dubbi. Alla sua uscita definì “1984”, «Libro memorabile. Libro di una tristezza disperata, ossessiva, che definitivamente colloca George Orwell in uno dei primissimi posti dell’odierna letteratura inglese». Un giudizio netto e fulminante che dispiacque a gran parte del panorama intellettuale dell’epoca molto invaghito del socialismo reale e per nulla entusiasta di questo capolavoro anti-utopistico che annunciava un mondo cupo, plumbeo, senza speranza. Troppe le analogie con il “paradiso sovietico”, troppe le similitudini tra l’onnipresente “Big brother” e l’onnisciente compagno Josif Stalin. Non a caso Palmiro Togliatti liquidò il romanzo orwelliano come «l’ennesima freccia della borghesia al suo arco sgangherato».  Nel Regno unito, per gli snob filocomunisti di Oxford e cenacoli contigui — per l’Happy society nei Quaranta e Cinquanta il marxismo fu un divertente socio di società e a volte un diletto spionistico… — George fu nulla più di un “tory anarchist”, un anarchico conservatore.  Un rompiscatole da evitare. Uno scrittore da non leggere.

Fortunatamente gli esorcismi comunisti e le ubbie degli “utili idioti” albionici (e non solo),  risultarono vani. Inutili. Da più di settant’anni “1984” resta uno dei libri più letti (e, spesso malamente, citati…) al mondo. Una vittoria postuma per il tubercolotico George, morto il 21 gennaio 1950 all’età di soli quarantasei anni, dopo una vita turbolenta tra India (era nato a Motihari nel 1903), Inghilterra, Birmania coloniale, Francia, Spagna e di nuovo Gran Bretagna, l’ultima tappa.

Fondamentale fu il passaggio iberico nel corso della guerra civile dove assistette, a Barcellona nel 1937, alla mattanza stalinista contro gli anarchici del Poum, il pittoresco partitino anarco-sindacalista della Catalogna. Una tragedia nella tragedia che gli fece comprendere come i presunti “paladini” degli oppressi, una volta cacciato l’oppressore, si sarebbero rivelati i peggiori tiranni: in nome delle loro “virtù”, ogni potere doveva essere delegato al partito unico, un’autorità assoluta, disumana che avrebbe vegliato e controllato cose, parole, sentimenti. Vite. Da qui “Omaggio alla Catalogna” e, soprattutto, “La fattoria degli animali”, una allegoria feroce quanto sublime sul regime dei Soviet, il luogo in cui «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri».

Fu poi la volta di “1984”, l’impossibile rivolta di Winston e Julia nel mondo dominato dal Socing (acronimo per “socialismo inglese”), partito padrone di Oceania, il superstato dell’emisfero occidentale. Entriamo nel racconto. Qui ogni pensiero, ogni parola sono vagliati dalla psicopolizia e dai vari ministeri, da quello dell’Amore, da quello della Verità, dell’Abbondanza etc..

In Oceania il passato viene continuamente riscritto attraverso la “Neolingua”, un idioma basico destinato a sostituire l’”Archelingua”, il linguaggio dei ricordi. Tutto deve essere cancellato e riscritto come vuole l’autorità. Nessun dubbio è ammesso. Ai membri del partito è imposta una disciplina inesorabile: chi non si adegua, chi tentenna, chi non capisce, chi ha un barlume d’intelligenza, viene vaporizzato. Eliminato. Cancellato. Agli adepti del Socing è perfino negata una vita affettiva e, tanto meno, sessuale. L’amore è una bestemmia. Anzi, un’offesa al leader supremo, il “Grande fratello” che si erge, sopra tutti e tutto. Un’immagine che appare attraverso teleschermi (un’altra intuizione geniale) nelle piazze, negli uffici, nelle case. Ovunque. Il golem che sovrasta la vita pubblica e privata di ognuno. Il moloch che tutto vede e nulla perdona.

L’incubo — o la visione — di Orwell è oggi, grazie alle matite dell’artista francese Xavier Coste, anche una splendida graphic novel, un perfetto racconto su nuvole parlanti assolutamente fedele al testo originale.  L’effetto è impressionante quanto coinvolgente. Coste ha ricostruito con audacia e rigore le ambientazioni — una Londra sudicia punteggiata da inquietanti palazzi ministeriali, interni claustrofobici e tristi giardinetti — dando vita ai personaggi principali e al loro miserabile contorno umano — i due amanti, i burocrati, i proletari, gli sbirri e le spie —; un gioco sapiente che ha l’artista ha segmentato in quattro gamme di colori che ritmano perfettamente lo svilupparsi della trama.

L’album, editato in Francia per Sarbacane, è ora uscito anche in Italia per Ferrogallico editrice (Milano, 2021. Ppgg. 240, euro 25,00) con la preziosa prefazione di Stefano Zecchi. Nella sua densa nota il professore avverte «”1984” è un’atroce denuncia non solo del totalitarismo, della comunicazione globale e del Grande Fratello che ci osserva instancabile da chissà dove», scrive Zecchi, «ma, in particolare, della stupidità e della miseria dell’uomo. Di un uomo incapace di credere in se stesso, di avere coraggio, di pensare in grande, di un uomo in grado di difendere soltanto la propria miserabile (spiritualmente) mediocrità, pauroso di perdere la sanità del corpo, vile e traditore. Una lucida, drammatica descrizione di un’umanità indifferente e vile, disposta a consegnare la propria persona a chiunque pur di liberarsi dal peso della responsabilità di scegliere e decidere con la propria testa. Questo è “1984”: una spaventosa e inappellabile accusa dell’essere umano».

Al solito il docente veneziano ha ragione. Ci sia consentito d’aggiungere, alla luce della sconfortante attualità che ci circonda e afflige, un piccolo appunto.  L’opera, millenovecentottantaquattro, è molto di più (come ancora si sostiene) di un libro “anticomunista” e Orwell non è soltanto un critico affilato, giustamente spietato, del sovietismo ma è molto, molto di più. Orwell é un annunciatore di verità profonde quanto inquietanti. Tutte scomode. Fastidiose. Orwell è terribilmente attuale.

Voce solitaria, già sette decenni fa lo scrittore comprese come la tecnologia al servizio dell’ideologia (qualsiasi essa sia) dà luogo e forma a una miscela tanto efficiente quanto soffocante e disumana. Estremamente crudele e anonima. In uno scritto poco conosciuto del 1946 — “Second thoughts on James Burnham” —, George ammoniva come il pericolo fosse in agguato (anche o soprattutto)  in quelle entità statuali che (ieri come oggi) si autorappresentano come democrazie compiute, rispettose dei diritti, delle leggi, delle costituzioni. Del patto sociale.

«Se non combattuto il totalitarismo può trionfare ovunque».  Un avvertimento più che mai valido in questo primo scorcio di millennio, quando in tutto l’Occidente sono in corso derive — accelerate, non a caso, dalla pandemia, un dato sanitario trasformato in isterismo mediatico — che mirano sempre più a restringere libertà individuali, modificare linguaggi e rapporti sociali, imporre nuovi schemi lavorativi e, soprattutto, riassemblare ideologicamente la Storia. L’obiettivo finale, la vera scommessa d’ogni progetto totalitario, poichè «chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato». Orwell dixit.

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