La guerra è sempre cosa brutta, sporca, devastante. Lo sappiamo. Ma tra le varie forme di conflitto quello fratricida è il peggiore, il più lacerante, il più cattivo. Nello scontro tra fazioni opposte ma similari— per nascita, lingua, cultura, abitudini — l’odio reciproco, la lotta senza quartiere, la ferocia inghiottono tutto e tutti. Il sangue chiama sempre altro sangue.

L’Italia è un paradigma perfetto. La guerra civile è, piaccia o meno, parte integrante della nostra storia. Siamo bravi, anzi bravissimi ad odiarci, a massacrarci. A prestarci, per piccoli calcoli endogeni, ai grandi giochi esogeni. E a volonterosamente offrirci, più o meno consapevoli, come semplici pedoni sulle altrui scacchiere.

Furbizie a cui gli italici e poi gli italiani sono usi sin dalla fatidica primavera del 1494 quando Carlo VIII di Francia oltrepassò le Alpi con un’armata di 65mila uomini dotata di possenti cannoni, e senza difficoltà arrivò sino a Napoli. Per i gallici si trattò poco più di una passeggiata militare — una “guerra del gesso” come la definì Niccolò Machiavelli, secondo cui l’unico sforzo fatto dagli invasori era segnare proprio col gesso gli immobili da requisire — resa possibile dal rovinoso crollo interno degli Stati italiani: con l’eccezione di Venezia, da Firenze alla Campania pochi vollero combattere, molti tradirono, altri preferirono consegnarsi al vincitore. Un perverso effetto domino che mandò in frantumi il “bel vivere italico” e, riprendendo Pietro Pieri, la dolorosa conferma «della mancanza d’un superiore forte sentimento di coesione sia come cittadini, sia come italiani riguardi degli altri Stati».

Nulla di nuovo: guelfi contro ghibellini, Genova contro Pisa, Venezia contro Genova, il papato contro tutti; e poi, altre stupide guerricciole tra comuni e principi, bonapartisti contro “insorgenti”, unitaristi contro borbonici, fascisti contro antifascisti.

E qui, per il momento, ci fermiamo e torniamo a circa ottant’anni fa, all’ora più buia della nostra storia unitaria quando i partigiani annunciavano “pietà l’è morta” e i fascisti repubblicani rispondevano con i loro canti di morte. Fedeltà e tradimenti. Sullo sfondo un crepitio di fucili, muri traforati dai proiettili e l’assordante silenzio dei caduti d’ambo le parti. L’inestinguibile guerra italo-italiana. Fazioni, localismi, opposte volontà di potenza, velleità e orrori con (celate ma potenti) regie straniere. Una tragedia ancora irrisolta, una ferita per molti — anche artatamente — tutt’oggi sanguinante e, al tempo stesso, anche un capo d’indagine storiografico aperto, un puzzle incompleto. Con interrogativi sospesi e aspetti ancora oscuri.

Da qui l’importanza del nuovo lavoro del professore Eugenio Di Rienzo, storico di grande valore ma, soprattutto, intelligenza libera e coraggiosa. Una preziosa rarità nel conformistico scenario dell’accademia nostrana. Con il suo libro “Sotto un’altra bandiera, antifascisti italiani al servizio di Churchill” (Neri Pozza 2023, euro 19,00), il docente romano indaga con minuzia e acribia il preludio e poi lo scatenamento della “morte della Patria” partendo da una visuale decisamente innovativa quanto trascurata: il lavorio incessante dell’intelligence britannica, sotto la regia diretta di Winston Churchill, per destabilizzare il regime mussoliniano servendosi di alcuni oppositori, scelti tra i più accesi e spregiudicati e, dato fondamentale, allora fermamente anticomunisti.

Tra loro Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Aldo Garosci, Max Salvadori, Leo Valiani, tutti arruolati nelle file dello Special Operations Executive, la punta di lancia dello spionaggio di Sua Maestà. Patrioti o traditori? Per Di Rienzo — dopo aver consultato gli archivi inglesi ormai desegretati — soprattutto degli ingenui che, abbacinati dall’odio verso il fascismo e il suo capo, non videro (o non vollero vedere) le vere intenzioni di Churchill ed Eden verso la bankrupt Italy e — con l’eccezione di Salvemini e parzialmente di Valiani — non si fecero scrupoli davanti ai loro piani di importanti amputazioni territoriali (complice in primis la Jugoslavia titoista) e di pesanti requisizioni industriali.

Del resto già dall’anteguerra Londra si era convinta che per la nazione che aveva sfidato la supremazia inglese nel Mediterraneo fosse necessaria una severa lezione di realismo: l’Italia perciò mero trofeo di guerra da utilizzare come servizievole “guardiaporte” del British Empire. Un progetto geopolitico articolato quanto spietato che svelava la vera dimensione del conflitto mondiale, per Di Rienzo non una “guerra per la libertà” ma una lotta darwiniana “per il dominio, per il vantaggio economico e politico, per l’egoismo di Imperi e di Nazioni”.

Di certo se i piani di Churchill non si realizzarono non fu di certo per merito della pattuglia militante “sotto un’altra bandiera”, ma delle stringenti logiche della real politik.   Come noto, proprio all’indomani dal trionfo di Malta, sigillo della resa incondizionata italiana, fu l’arrembante alleato americano a restituire ai vinti un abbozzo di dignità internazionale e un ruolo come piattaforma strategica della politica mediterranea — apertamente anti inglese — di Washington.
Una chance inaspettata, che i governi del dopoguerra colsero al volo consci che, pur accettando un profilo basso e un’apparente subalternità agli interessi statunitensi, questi fossero una volta di più — nonostante il mutamento dei rapporti di forza — ampiamente coincidenti con quelli nazionali.

A netto del loro impegno i nostrani “lanzichenecchi della Churchill’s Segret Army” non combinarono quasi nulla a livello spionistico e militare — le velleità guerrigliere di Lussu in Sardegna si schiantarono contro la realtà e l’Italian Legion da reclutare tra i prigionieri di guerra non vide mai la luce —e il loro apporto propagandistico fu modesto. L’unica eccezione di rilievo riguarda Max Salvadori e Leo Valiani, protagonisti della complessa e ancora opaca trama che portò alla fucilazione di Mussolini a Giulino di Mezzegra. Un atto per Churchill— alla luce dei suoi compromettenti rapporti con il duce prima e dopo il 10 giugno 1940 — sicuramente provvidenziale. Come appunta Di Rienzo, Downing Street non aveva alcun interesse a una Norimberga italiana, considerata fonte di inconfessabili imbarazzi. Meglio delegare — tramite Salvadori e Valiani —ai partigiani l’eliminazione del romagnolo, previa acquisizione (da parte del SOE?) di quella malandata borsa di cuoio nero in cui erano custoditi i segreti del duce. Un mistero che, come l’autore ricorda, appassionò a lungo Renzo De Felice.

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