Del Workshop Ambrosetti 2013 a Cernobbio, sulle rive del Lago di Como, resteranno alcune istantanee dei protagonisti della scena finanziaria mondiale. Resterà il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, con la sua camicia a maniche corte. Resterà il presidente di Telecom, Franco Bernabè, con il suo fuoco di sbarramento verso chi vuol fare un sol boccone dell’operatore telefonico. E resterà il codazzo di giornalisti tampinare il premier Enrico Letta fino in Chiesa.

Ma a noi personalmente resterà in mente il severo cipiglio dell’amministratore delegato del Monte dei Paschi, Fabrizio Viola. Il commissario Ue alla Concorrenza, Joaquin Almunia, dopo l’incontro con il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, ha emesso un verdetto che a Siena lascia un po’ di amaro in bocca. Il piano di salvataggio del Monte con i 4 miliardi di euro dei Monti-bond molto probabilmente otterrà l’ok di Bruxelles, ma le condizioni imposte per il «sì» sono pesanti: un aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro (pari all’attuale capitalizzazione di Borsa della banca) finalizzato al rimborso anticipato di una parte consistente del prestito del governo, un altro deciso taglio ai costi e una sforbiciata al portafoglio di Btp (poco meno di 24 miliardi al 30 giugno). Se la ricapitalizzazione per un qualsiasi motivo non dovesse essere effettuata nel 2014 oppure se la stessa dovesse fallire, Mps sarà nazionalizzata con la conversione in capitale dei 4 miliardi di obbligazioni speciali sottoscritte dallo Stato che renderanno il Tesoro primo azionista col 61 per cento.

Certo, poteva andare peggio. Almunia avrebbe anche potuto opporre qualche rifiuto che avrebbe fatto saltare il progetto di rilancio di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Ma, a conti fatti, i 4 miliardi sono stati concessi dallo Stato (cioè da noi contribuenti), il Monte non ha chiesto un centesimo all’Europa (a differenza delle banche spagnole) che deve solo valutare se l’aiuto sia compatibile con la normativa comunitaria. E, invece, Siena si trova in qualche modo «aggiogata». L’obiettivo dichiarato di Profumo è sempre stato quello di trovare soci industriali, non maggioritari e rimborsare gradualmente l’aiuto statale. Questa ipotesi è stata stoppata dall’Unione Europea.

È fuor di dubbio che a Siena il sistema politica-finanza non avrebbe potuto continuare a fare il bello e il cattivo tempo nella gestione dell’istituto, anche se il Pd locale tramite Comune, Provincia e Regione continua ad avere una presa forte. La stessa scelta di Antonella Mansi come nuovo presidente della Fondazione è una scelta di discontinuità, anche se non troppo marcata. Ora il destino è comunque segnato: a meno di un’improbabile soluzione «alla UniCredit» (con l’individuazione da parte del consorzio di garanzia dell’aumento di investitori privati pronti a mettere ciascuno un chip), il Monte – soprattutto se dovesse essere nazionalizzato – diverrà «preda» di qualche grosso player internazionale, perché è impensabile che qualche big di casa nostra, alle prese con piani di riduzione del personale e del numero di sportelli, si imbarchi in un’avventura di crescita dimensionale interna che creerebbe non pochi problemi di Antitrust e di sovrapposizioni geografiche.

All’Europa l’Italia ha così pagato un prezzo salato. Certo, l’acquisto di Antonveneta e il «pasticciaccio» dei derivati sono stati la causa dell’attuale situazione critica di Mps. Ma, a nostro parere, quella crisi si poteva risolvere secondo un percorso graduale meno degradante. La Germania ha nazionalizzato Commerzbank e altri istituti e la Commissione non ha fiatato. I Monti-bond sono un prestito a un tasso salatissimo (9,5%) per la banca e col tempo avrebbe dovuto essere restituito, pena il rinvio sine die del ritorno alla redditività. Ci dispiace dirlo (anche perché stiamo facendo un torto ad alcuni politici che lavorano con scrupolo), ma se a Mps è stato messo il «giogo», è perché purtroppo in Europa non ci rispettano.

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