L’Italia non è più quella che vedete in questa foto dell’archivio Ansa con gli operai che protestano fuori dai cancelli di Mirafiori contro il «padrone» Gianni Agnelli.  L’Italia di oggi è fatta di competenze trasversali, di capitale umano più complesso rispetto a quello dell’«operaio-massa» teorizzato dal «sovversivo» Toni Negri. Pensate, nemmeno quella Fiat che vedete sullo sfondo esiste: oggi si chiama FCA, è quotata a Wall Street e ha la sua sede legale in Olanda e il domicilio fiscale a Londra, anche se il cuore continua a battere a Torino. Eppure, nonostante questa lenta e non ancora conclusa trasformazione, molti italiani sono ancora attaccati al caro vecchio «articolo 18», al posto di lavoro a vita, magari sempre con le stesse funzioni e inquadramenti. A parole si dice una cosa e nella pratica se ne fa un’altra. L’estenuante trattativa di queste settimane tra le diverse anime della maggioranza (renziani, sinistra Pd e Ncd), sfociata in un compromesso al ribasso sui licenziamenti disciplinari, è lo specchio di un Paese con la testa rivolta al passato e incapace di accettare il futuro, sempre pronto a dividersi in «pro» e «contro». Ecco perché diamo ancora una volta spazio alla riflessione di Angelo Pasquarella, amministratore delegato di Projectland ed esperto di sociologia del lavoro.

 

«Sull’articolo 18 ci stiamo arrovellando in astratte valutazioni di equità o di giustizia sociale o sul confronto tra la situazione di lavoratori anziani e privilegiati contro quelli giovani che hanno difficoltà a trovare un’occupazione. Il vero problema sta invece nel giudicare se questa normativa sia o meno utile per regolamentare il lavoro nell’attuale contesto economico.

La normativa vigente è figlia di un periodo storico, quello degli anni sessanta e dei primi anni settanta, che gli americani hanno chiamato The golden age of capitalism (L’età dell’oro del capitalismo), caratterizzato da una domanda costantemente superiore all’offerta, che aveva dato l’illusione che la crescita sarebbe durata per sempre. La disoccupazione era attestata su tassi fisiologici, la prospettiva era quella di iniziare in un’azienda, svolgendo coscienziosamente un compito in un modello organizzativo strutturato e incasellato, e di lavorarvi per sempre. Questa è stata l’esperienza di molti.

Cosa è cambiato nel frattempo? Da una società industriale siamo passati ad una società postindustriale. Da un mercato di domanda a un mercato di offerta. Dalla normale concorrenza alla competizione globale. Dalla prevalenza del “quarto stato” (gli operai) alla prevalenza del “quinto stato” (i lavoratori della conoscenza, con gli inquadramenti più disparati).

La ricchezza non deriva oggi automaticamente dal modello organizzativo e dal capitale impiegato, ma anche e soprattutto dalla capacità di rendere attrattivi, su un mercato globale, prodotti e servizi attraverso l’intelligenza che si esprime in tecnologia, estetica,  arte e penetrazione mercantile, lavoro che viene appunto fatto in prevalenza da operatori della conoscenza.

Oggi, nella cosiddetta “società della conoscenza”, la realtà delle imprese prevede, anche a livello operaio, lavoratori che debbono essere maggiormente coinvolti, che, a fronte di sistemi più automatizzati, esercitano funzioni di controllo e prendono spesso decisioni nei processi operativi. Nulla che assomigli al “lavoratore massa” di un tempo che invece caratterizza oggi  l’occupazione nei paesi a basso costo di mano d’opera.

I lavoratori, da meri strumenti nelle mani dell’imprenditore, adibiti ad un’attività organizzativamente incasellata e facilmente sostituibili, sono divenuti invece protagonisti del processo produttivo e quindi attivamente e consapevolmente coinvolti nei risultati aziendali.

I lavoratori della conoscenza rappresentano ormai il 43% del totale e il lavoro meramente esecutivo, che richiedeva una protezione maggiore di fronte all’eventuale arbitrio dell’impresa, è in diminuzione. L’importantissimo settore manifatturiero rappresenta oggi solo il 16% del Pil.

Due sono quindi gli istituti che hanno sicuramente perso di significato: il rigido meccanismo delle mansioni e l’obbligo di reinserimento nel posto di lavoro. Questi istituti sono nati ed hanno senso in un contesto in cui l’assetto organizzativo è tutto e l’apporto delle persone è solo esecutivo ed esclusivamente funzionale all’organizzazione stessa. Se i compiti sono rigidamente definiti e le persone intercambiabili è pensabile un reintegro, in caso contrario gli elementi di fiducia e di coinvolgimento nei processi aziendali prevalgono su ogni altra considerazione, altrimenti penalizzeremmo la stessa produttività dell’azienda e ne otterremmo un danno sia per gli altri lavoratori che  per la collettività.

D’altro canto, se diciamo ai nostri figli che cambieranno nel corso della loro vita una decina di imprese, che saranno costretti a riconvertire le loro competenze almeno 4 o 5 volte nella vita, che dovranno preferibilmente cercare esperienze all’estero, diventa difficile sostenere un modello industriale basato sui mansionari e sull’obbligo di reintegro.

Nella “società della conoscenza” dovremo necessariamente convivere con un diverso livello di incertezza nel quale le sicurezze di un tempo più che sulle garanzie legali e contrattuali (che possono venir meno anche per le frequenti crisi aziendali), saranno date dalle competenze, dalle conoscenze e dalla capacità di riconversione delle persone, che dovranno trovare sbocco nei settori che risulteranno di volta in volta emergenti. In questa direzione abbiamo oggi molto da fare sia nell’ambito della scuola che della formazione continua che della responsabilizzazione di ogni lavoratore nella crescita delle proprie competenze».

Wall & Street

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