Ataviche inadeguatezze, sciatteria e opportunità sciupate sono elementi di una civiltà in declino che si rendono manifesti soprattutto nell’incuria dei simboli culturali. Quel mondo imponente rappresentato dal nostro patrimonio artistico è infatti svilito dalle tante, troppe manchevolezze che ne rendono per certi aspetti pleonastica l’idea stessa del restauro, della conservazione e, perché no, dello sfruttamento commerciale. Sembra una eresia ma è la realtà a dirci questo.

Ecco perché se fino a qualche tempo suscitava chiose polemiche l’eventuale presenza dei privati nella gestione di monumenti-simbolo come il Colosseo, adesso è per certi versi indispensabile e inizia ad incassare consensi da impensati fronti politici e culturali.

Se ragioniamo con la dovuta pacatezza, e dunque senza lasciarci coinvolgere da isterismi ideologici o eccitazioni utopistiche, e rivolgiamo la necessaria attenzione allo stato concreto in cui versano molti dei nostri gioielli, non possiamo non riscontrare tutta una serie di deficit: gli introiti sono in larga misura insignificanti rispetto agli altri Paesi; conservazione e restauro sono affidati alla personale capacità di ottimi professionisti del settore che, però, sono pochi in numero e quindi senza alcuna capacità di coprire tutto il territorio; ed infine, veti incrociati di amministrazioni locali ed Enti, sindacati sul piede di guerra un giorno sì e l’altro pure, organizzazione logistica a macchia di leopardo e mancanza di fondi strutturali.

Di fronte a tale inestricabile matassa il minimo che si possa fare è perciò affidarsi ai privati in una sorta di cogestione utile ai cittadini, allo Stato e agli imprenditori. Anche perché una terza via non esiste. O lo Stato, seppur in posizione di forza, tratta con il privato, o decide di assumere su di sé tutta la responsabilità ma visti gli esiti degli ultimi anni le prospettive non potranno essere che pessime.

Tuttavia, quanto accaduto nei giorni scorsi in Grecia spiazza e, almeno per qualche momento, rende fragili le nostre certezze. Una nazione disastrata sotto ogni profilo, rifiuta da Gucci un milione di euro per 900 secondi di sfilata da tenersi nello spazio antistante il Partenone, più altri 55 milioni per i diritti video perché <<il valore e il carattere dell’Acropoli è incompatibile con un evento di questo tipo>>.

Quando ho letto questa dichiarazione della Commissione archeologica e poi, in aggiunta, la frase di Dimitris Pantermalis, direttore del Museo che ospita i resti del fregio del tempio antico e le Cariatidi: <<il simbolismo del monumento sarebbe svilito usandolo solo come “sfondo” per una sfilata di moda>> mi è venuto un tuffo al cuore. Mi sono chiesto per quale motivo, noi italiani, ci siamo ridotti al punto da questuare a destra e a manca aiuti economici per il nostro patrimonio culturale? Per quale ragione ci avviamo su un crinale scontato che è quello fissato da un permanente sostegno privato per tesori che non hanno pari nel mondo?

Ovviamente, trattasi di domande retoriche perché nella situazione data, l’unica certezza è rappresentata dal fatto di non poter più tornare indietro. Inettitudine di una mediocre classe dirigente e difetti incancrenitisi nel tempo ci impediscono infatti di optare per una gestione autarchica del patrimonio artistico e ci obbligano alla presenza dei privati, oramai necessari e per certi aspetti indispensabili.

Eppure, questo diniego greco è una boccata d’ossigeno, uno squillo di tromba nel deserto. Non servirà a nulla ma lo sentiranno tutti. Sarà forse l’ultimo sussulto di una nazione in stato comatoso, eppure fa agitare nel mio subconscio qualcosa di indecifrabile che mi rende ancor più prossima quella gente.

Il Partenone vomita su noi, uomini della modernità, tutto il suo fascino mitico-simbolico; tutto il suo carico identitario; tutti i suoi valori di riferimento e ci dice che mentre i Greci tentano di resistere, noi abbiamo abdicato da tempo.  1

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