C’è poco da fare, è la moda del momento. Ormai è rincorsa a definirsi ‘sovranisti’. Chi si ferma è perduto e chi non lo dice è un traditore della Patria. Oltretutto siamo già ai ‘sovranisti 3.0’, quelli che sentono naturalmente bislacca ogni ipotesi non nazional-popolare e tentano di spingersi all’indietro, ancor oltre la trimurti del ‘Dio, patria, famiglia’; forse ai principi del medioevo e prima ancora.

In tutta questa babele c’è però un ”non detto”. Rimanendo nel cielo delle elucubrazioni populistiche e negli elementi fattuali si corre seriamente il pericolo di scostarsi da una realtà tanto banale quanto a portata di mano per ognuno. Questo cosiddetto ‘sovranismo’, vale a dire questa sorta di nazionalismo senza ideologia e intellettuali, e che tende frequentemente a solleticare istinti più che analisi elaborate, è diverso dai suoi progenitori novecenteschi. E lo è anche perché è cambiata la situazione generale del Paese, sono mutati i tempi ma soprattutto è differente il mondo. Ma non lo si dice.

E dunque, difesa delle frontiere, del commercio interno e delle proprie aziende e dei lavoratori, sono concetti che assumono credibilità politica e intellettuale se tengono conto del contesto contemporaneo. Sono infatti alcuni decenni che l’interdipendenza tra gli Stati è inconfutabile e irreversibile. Il nostro Paese, per esempio, non è autosufficiente dal punto di vista energetico e deve per forza di cose scendere a patti con chi gli vende gas o petrolio. Ma è solo un dato a cui potremmo aggiungervene altri, con esempi che sottendono ad una sola conclusione: si può anche essere contro la globalizzazione; o meglio, si può ritenere anche che la attuale internazionalizzazione dei mercati e delle merci sia penalizzante e produca più povertà e disuguaglianze di quanto uno potesse aspettarsi solo dieci anni fa. Tuttavia, indietro non si torna. Questa sorta di pseudo autarchia da terzo millennio può essere utile in una prima fase, quella attuale, in funzione propagandistica e anche come sprone continuo ad una azione di governo più efficace e attenta agli interessi specifici degli italiani. Ma va contestualmente ricordato che il nostro non è un Paese autosufficiente e quindi ha necessità di aprirsi al mondo così come ha sempre fatto nella sua storia millenaria. Ciò non vuol dire sottomettersi ai ricatti della economia finanziaria, alle derive tecnocratiche di una Europa imbelle e autoritaria, alle coercizioni al ribasso imposte da una economia cinese sempre più arrembante e senza scrupoli, e insomma, da tutto ciò che di cattivo e negativo ci arriva da oltre confine.

La soluzione è tuttavia nella autorevolezza dei nostri rappresentanti politici e di governo. Nella loro capacità di difendere i nostri particolari interessi nelle sedi istituzionali appropriate. E perciò nel rinvigorire sotto ogni profilo questa malandata Italia per renderla autorevole all’interno di una Europa potente e forte.

Il mondo globale è purtroppo destino a cui non c’è scampo. E noi abbiamo bisogno di una Italia forte e di una Europa forte. Lo si può però, per quanto possibile, regolamentare il mondo globale, disciplinando ogni suo piccolo anfratto normativo, e iniziando a tenere presente che magari le ipotesi imperialistiche di Carl Schmitt possono in questo frangente suggerirci qualcosa di concreto e fattibile, oltre le suggestioni tipiche delle fibrillazioni politiche contingenti. Schmitt pensava a fronti multipolari in cui grandi aree geopolitiche come l’Europa, gli Stati Uniti o la Russia, potessero competere con pari dignità e forza. Un mondo dove la Guerra fredda tra due contendenti veniva sostituita da grandi zone di influenza e i nuovi imperi moderni potessero mettere in atto un fronte dialettico costante ma senza l’uso delle armi e senza scadere in una indistinta soluzione globalizzante. Da questo punto di vista si può comprendere il ritorno di fiamma verso partiti e movimenti che sostengono forme neo-protezionistiche, proprio per l’assoluta incapacità della Unione Europea a risolvere anche le questioni minime.

Però, se ritorniamo per un attimo al ‘sovranismo’ e alle sue manifestazioni attuali, va da sé che esso può esser utile per far destare dal sonno una classe dirigente totalmente asservita alle logiche del profitto e del mercato; per manifestare a voce alta che è necessario difendere ciò che resta di un labile profilo identitario; per fare in modo che i nostri prodotti, i salari e i diritti non vengano mortificati e triturati nel contesto spaesante della internazionalizzazione.

Ci sono però due limiti che vanno parimenti sottolineati. Vi sono cadute di stile e parole d’ordine trite e ritrite che risultano offensive per chiunque abbia fatto nella sua vita un minimo di letture e conosca la Storia. Spesso chi parla di ‘sovranismo’ decritta i titoli senza far conseguire un’analisi concreta e ragionata. In secondo luogo, l’ipotesi di chiusura se attuata da ogni Paese europeo o occidentale, a cosa porterebbe? Ad una autarchia generalizzata? E poi a chi converrebbe? Se Trump chiude davvero le frontiere oltre che i rubinetti degli scambi commerciali, e Putin lo imita e fa lo stesso, siamo certi che da tutto questo dilagante ‘sovranismo’, da questa autarchia generalizzata, ne potremmo trarre i dovuti benefici.

Il sovranismo, allora, deve essere solo strumento politico di ricatto; premessa per concertazioni future e per incamerare delle concessioni dai partner internazionali. Se diventa unica ipotesi di lavoro e strategia di lungo periodo può risultare dannoso oltre che miope.

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