Vasco Rossi e la combriccola troppo grande
Pur avendo allentato la presa, mi godrò certamente Modena Park, concerto grazie al quale Vasco Rossi festeggerà i 40 anni di carriera artistica insieme a 250mila persone e destinato a imprimere un sigillo nella storia della musica italiana.
Allentato la presa perché da tempo il Blasco è diventato fenomeno di massa, e dunque come tutti i fenomeni ha avuto una fase di crescita e una di esplosione.
Il mio personale spartiacque fu C’è chi dice no. Era il 1987. Tre anni prima era stato arrestato a Bologna. I guai con la cocaina gli avevano fatto trascorrere qualche settimana nelle patrie galere ed io, proprio in quegli anni e in tempi diversi, passavo diverse settimane a Zocca. Ovviamente non in ‘pellegrinaggio’. Ero lì per altri motivi ma ogni santo giorno passavo davanti casa sua, dove credo vivesse ancora la mamma.
Quel concerto del 1987 fu apice e allo stesso tempo giro di boa per il mio coinvolgimento perché il ‘Vasco’ che iniziava a piacere alle folle oceaniche, non poteva che perdere colpi nel mio listino di gradimento. E lo confesso: fu una sorta di sciocca ripicca da fidanzato geloso mai più passata. D’altra parte, non lo abbandonai del tutto e infatti continuo di tanto in tanto a ‘seguirlo’, ma il fidanzamento fu rotto.
Questo perché resto ancora convinto che il ‘Vasco’ più puro sia quello dell’inizio. Puntualizzazione che non vuole essere una discriminante definitiva e oggettiva; ma solo una personale linea di confine. Opinabile dai 250mila del Modena Park e dai milioni che da casa assisteranno allo show. Come infatti capita a molti romanzieri di livello, uno o due sono i libri importanti; quelli che restano nell’immaginario e finiscono nelle antologie scolastiche. Gli altri sono utili per delimitare il contesto complessivo della poetica, e nulla più.
E così ‘il mio Vasco’ rimane quello spaesante e cinico della prima ora. Quello che con sguardo perso, faceva degli eccessi etica ed estetica della propria vita. Per riprendere una vecchia polemica …il nichilista che combatteva estraendosi dal mondo.
Dal punto di vista ideale non avevo molto in comune con lui. Lo sapevo fin da allora. Vasco era e resta un libertario che ha appoggiato tutte le battaglie del partito radicale sulle quali quasi mai ho pensato bene. Eppure, c’era una carica esplosiva di ribellione mai filtrata dalle maglie dello showbiz e perciò apparentemente intonsa fino ad essere liminare ad una ingenuità ammaliante. Quel Vasco ‘sballato’, ma sballato per davvero e non per finzione scenica, era tanto lontano dalle idee che andavo strutturando quanto simile alle passioni e ai fuochi che ogni ragazzino doveva in qualche modo sprigionare. Quella era l’Italia democristiana, plumbea e monolitica, bigotta e accomodante. Di conseguenza, qualunque ribellione finiva per appartenermi. E dunque testi che celebravano la ‘ vita spericolata’ non potevano che essere dirompenti.
Così come per i pittori e i poeti di inizio novecento abituali frequentatori dei bar parigini, così come per i futuristi italiani, anch’egli fece combaciare arte e vita. A suo modo, col suo personale Roxy bar, ma lo fece. Inneggiando ad ogni tipo di trasgressione, ‘fuori di testa’ anche nella vita normale (« …sensazioni sensazioni, sempre più forti! Non importa se la vita sarà breve, vogliamo godere! godere! godere!»). Mentre i cantautori impegnati, puledri addomesticati dal partito comunista, dovevano indossare la maschera dell’anticonformismo, a lui era sufficiente mettere in scena se stesso. Trasgredire era allora andare fuori da percorsi preordinati e, se poi, lungo la strada scoprivo che la direzione di marcia non era la mia, poco importava. Volevo solo divergere da un putridume sociale e politico che non lasciava scampo. Vasco Rossi era acerbo e provinciale, nella misura in cui questi concetti potevano rappresentare pungoli positivi mentre ora vengono considerati un limite.
Solo anni dopo quel 1987 compresi che quel concerto aveva smosso qualcosa di importante. Vederlo osannato da migliaia di persone in uno straripante palazzetto dello sport fu orgasmo collettivo dopo il quale rimasi senza forze. Estraniante e rivitalizzante. Eppure, gradualmente iniziai a comprendere che non era più la voce in cassetta che ascoltavo con gli amici in macchina ma idolo in carne e ossa intorno al quale si dispensavano gadget e robe simili e le critiche feroci dei mass media stavano lasciando il passo alle interviste al miele di Vincenzo Mollica e alle copertine delle riviste glamour.
Quel 1987, come dicevo, fu apice e inizio della regressione a mito post-moderno e a idolo dello star system. Certo, sempre con il suo personale stile canzonatorio e divertente, a tratti stralunato; tuttavia compresi che stavano entrando in gioco mille altre pulsioni, in lui, in coloro che lo osannavano e in me stesso. Quel Siamo solo noi divenne altro perché delle tre parole stavamo perdendo quella più importante: quel ‘solo’ che era manifesto di una generazione.
La spettacolarità degli eventi, le liturgie collettive, le lunghe fila in attesa, il geometra del catasto con bandana e suocera al seguito, la starlette televisiva col riccone al guinzaglio stavano diventando materia stessa del popolo di Vasco. Tutto stava mutando. Dai testi che decantavano le magnifiche sorti e progressive del Valium, dalle notti insonni, dal sesso sfrenato o mancato per via di qualche ‘troia andata a casa con il negro’ (Colpa d’Alfredo), dai ‘fegati spappolati’ («s’è alzato da poco, e non è ancora sveglio, ed è talmente scazzato che non riesce a parlare nemmeno»), a ‘non siamo mica gli americani che loro possono sparare agli indiani’, ad Albachiara, a Portatemi Dio (…gli voglio parlare, gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e che non ho capito) si iniziarono, e forse giustamente, a percorrere altre strade.
Avevo l’impressione che stesse diventando nazionalpopolare. Non che prima non lo fosse, o che i suoi testi fossero strutturati in maniera ermetica o complessa come una pagina di Thomas Mann o di Gadda. No, Vasco era sempre diretto e ultra sintetico. Ma quel nazionalpopolare stava iniziando ad assumere in quel frangente la valenza più retriva. Non quella positiva di derivazione gramsciana ma quella pericolosa che da reietto e ultimo classificato a Sanremo ti porta ad essere il più amato dagli italiani.
E così mi sono ritrovato con un Vasco che decifrava Vita spericolata in mille modi e cose diverse da ciò che avevamo inteso noi di quella generazione, e da ciò che lui ci aveva fatto intendere. E come se, fatti i debiti paragoni, Louis Ferdinand Celine alla fine della sua vita, ci avesse confessato in suo ultimo libro che sulla punteggiatura si era sbagliato, le frasi volgari non avrebbe voluto dirle, quelle antisemite nemmeno pronunciarle, i gatti gli facevano schifo e gli aggettivi su certe donne erano offensivi.
Guarderò Modena Park perché in fondo a Vasco voglio bene; così come lo si vuole ad un ricordo della propria giovinezza o a chi con un monosillabo riesce a smuovere ancora qualche dolce sentimento. Tenterò di non ricordare le marce indietro fatte in decine di interviste. Per fortuna, la memoria in casi del genere fa preventiva selezione. Dei ricordi belli elimina anche la più piccola macchia e ci lascia solo fragranze profumate. Ed è lo stesso procedimento che avviene con i primi fallimentari approcci sentimentali con l’altro sesso quando, nel giro di qualche decennio da quei timidi approcci, siamo naturalmente portati ad eliminare i ricordi che riaprono ferite non del tutto rimarginate e, al contempo, siamo propensi a riannodare i fili delle emozioni più svenevoli e delicate che però ci danno sollievo.
Il Vasco imbolsito e senza capelli non è diventato un cantante mediocre, un rocker da quattro soldi o artista a fine carriera. È ancora di molte spanne superiore a tutti quanti gli altri. Solo che è un altro Vasco.