Il fascismo eterno di Eco
Dopo aver letto Il fascismo eterno (‘Ur-Fascismo’) di Umberto Eco si riceve una doppia sberla. La prima, quasi prevedibile e attesa, riguarda il contenuto di un libricino di appena cinquanta pagine (edizioni La nave di Teseo) in cui l’autore riesce a condensare, da par suo, tutte gli elementi inattendibili e poco veritieri che hanno strutturato nei decenni la retorica antifascista e anche l’analisi, apparentemente più asettica ma sempre partigiana, delle accademie, dei politici e dei media cosiddetti ‘democratici’. La seconda riguarda la ‘fenomenologia’ di Eco. Vien difficile, di fronte ad uno studioso la cui imponenza intellettuale è riconosciuta internazionalmente, dover verificare quante e quali sgrammaticature di analisi politica e storiografica possano essere condensate in poche pagine visto che egli riesce nell’impresa di non azzeccarne quasi nessuna; eppure infiocchetta tutto in maniera pervasiva ed ottundente.
Andiamo per ordine, tentando di replicare alle sue tesi una ad una.
La genesi
Eco scrive che Il fascismo eterno fu pronunciato ad un simposio organizzato dalla Columbia University, il 25 aprile 1995, e poi pubblicato, due mesi dopo, su “The New York Review” come Eternal fascism. Pensato, dunque, per un pubblico di studenti americani e pronunciato nei giorni in cui l’America era scossa per l’attentato di Oklahoma City. Sottolinea questa circostanza nelle prime righe, quasi a mettere le mani avanti. Il dato fattuale è un altro, nascosto ma ben visibile a chi vuol vedere. Siamo in una fase storica (l’alba della Seconda repubblica) in cui la stampa italiana cavalca l’onda del pericolo nero. In quel frangente, e almeno per un ventennio pieno (e pare non sia ancora finita), il refrain è lo stesso: stigmatizzare la destra in tutte le sue versioni e scorgere rigurgiti neofascisti. Dunque, nessuna Oklahoma che tenga. Da un fatto di cronaca si risale progressivamente fino a riconfermare l’andazzo ideologico di sempre, a cui in maniera esplicita Eco non si sottrae. Se gli altri, in Italia, facevano i Girotondi, Eco scriveva e diceva le stesse cose in lezioni americane.
L’età precoce
Eco nacque nel 1932. Il libro parte da un evento del 1942, quando aveva appena compiuto 10anni e le vicende che segnala, sono rispettivamente del 1943 e del 1944. Parliamo, perciò, di un ragazzino che attraversa le vicende della Storia tra i suoi dieci e dodici anni.
Ebbene, ammette di essere talmente precoce che, già nel 1943, <<scoperse il significato della parola “libertà”>>. Già potremmo fermarci e pensare che possa trattarsi di una costruzione fantasiosa a posteriori; un input ricevuto da un ragazzetto e poi sviluppato e ampliato in maniera articolata e consapevole negli anni a venire, grazie a seri studi e maturate esperienze. Invece no! Proprio Eco ci rammenta che , oltre ad essere stato bravo a scansare pallottole (qui gli possiamo credere!), può ricordare a memoria, anche le poche frasi che Mimo, il capo partigiano della zona, pronunciò dal balcone del municipio ‘liberato’, senza alcun fronzolo di retorica come era accaduto per il passato Regime. E qui, dice lui, in questo preciso istante, capì la differenza tra il concetto di retorica e buona politica. Oltre, dunque, a prodigi di carattere mnemonico, si rivela anche una inaudita capacità di elaborazione culturale per un frugoletto che stava alle elementari o le aveva da poco finite. Scoprì che la <<Resistenza non era solo un fenomeno locale, ma europeo>>. E conobbe, sempre a 11anni, il significato della parola ‘Olocausto’, dopo che gli furono pure mostrate delle foto del ghetto di Varsavia (in Italia, con le SS in giro, circolavano foto del ghetto di Varsavia? E se anche fosse, le facevano vedere ai bambini?).
E mica è finita? Di notte, sempre all’età di undici anni, ascoltava Radio Londra, riuscendo pure a comprendere che i messaggi fossero criptici (<<il sorge ancora>>, <<le rose fioriranno>>). Oltre a ricordarli a memoria, ne intuisce il significato allegorico. E sa che quei messaggi sono rivolti ‘’alla Franchi’’ che, poi, scoprirà essere il Edgardo Sogno che descrive come il mito della sua infanzia, un punto di rifermento. Peccato, dice Eco, che dopo la guerra, Sogno si unì a gruppi di estrema destra. Peccato, ribattiamo invece noi, che Edgardo Sogno, in quanto fieramente anticomunista, subito dopo la guerra fu messo da parte e trattato come un appestato da tanti amici di Eco.
Sempre a quell’età, ricorda di essere stato mandato dalla madre, il mattino del 27 luglio del 1943, a comprare il giornale: <<ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio (…) firmato da cinque o sei partiti politici, come democrazia cristiana, partito comunista, partito socialista, partito d’azione, partito liberale>>. Anche qui …li ricorda tutti, uno ad uno. E poi aggiunge: <<dal momento che ero un ragazzo sveglio>> (…non avevamo dubbi), <<mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all’altro. Capii così che esistevano giù come organizzazioni clandestine>>. Dopo “la resistenza europea”, il concetto di democrazia, di retorica, i messaggi criptici di Radio Londra, l’Olocausto, quel ragazzino capì che esistevano dei partiti e comprese anche l’essenza nodale di altri concetti: <<‘libertà’, ‘dittatura’ … in virtù di queste parole ero rinato uomo libero occidentale>>. Il tutto, sempre a undici anni.
Un copione da film
Che in tutto questo giochi un ruolo la sua maestria da romanziere è fuor di dubbio. Eco è indubitabilmente uno scrittore di primissimo livello. E che, perciò, tutto sia ‘insaporito’ con ingredienti finissimi, generati dalla fascinosa e tragica ideologia che ha pervaso la repubblica italiana nel dopoguerra, è altrettanto incontestabile. Racconta, infatti, di aver visto i primi soldati americani, ovviamente tutti afroamericani. Uno di essi, un nero di nome Joseph, gli fece conoscere Dick Tracy e Li’l Abner: <<la mia prima immagine, dopo tanti visi pallidi in camicia nera, fu quella di un nero colto in uniforme giallo-verde>>. Anche qui, una casistica ricostruita ad arte dall’immaginario collettivo post-bellico e che viene riproposta con una banale dicotomia tra nero, colto e buono, e bianco, imbecille e retrogrado.
Manca, tuttavia, un altro tassello di questa sceneggiatura filmica che subito Eco non tarda ad inserire. Racconta infatti di un ufficiale alleato cui le signorine italiane “facevano il filo” e che gli diede il primo chewing-gum.
Qui il cerchio si chiude. A undici anni ascoltava Radio Londra, scansava proiettili, comprese l’essenza stessa dei concetti di libertà, democrazia, retorica, dittatura, resistenza europea, fece la conoscenza di neri buoni e colti, e di ufficiali che regalavano chewing-gum ai bambini. Mancano le famose Jeep e la musica di sottofondo e sembra di essere al cinema.
I fascismi
A pagina 18, entriamo nel cuore della esegesi. La premessa è lapalissiana. I fascismi che dominarono l’Europa prima della Seconda guerra mondiale, sarebbe difficile vederli ritornare nella stessa forma. E fin qui ci siamo e motiva tale asserzione con il fatto che il fascismo aveva un capo carismatico, fu corporativo, si fondò sull’utopia del ‘destino fatale di Roma’, sull’imperialismo, sull’antiparlamentarismo, eccetera. Dopo però aver specificato tutto questo, qualche rigo sotto, salta fuori il primo inghippo, a riprova di quanto abbiamo detto all’inizio; e cioè che queste tesi, nate nel 1995, sono figlie di una cultura militante stratificata che ebbe dei picchi di rancore se non proprio di odio con l’inizio della Seconda repubblica. Ecco spiegato il suo breve rifermento ad Alleanza nazionale e alla sua uscita dal neofascismo.
Nonostante ciò, scrive Eco, quei totalitarismi che dominarono l’Europa prima della Seconda guerra mondiale furono definiti tutti fascismi e molto altro ancora viene definito, oggi, sotto la stessa categoria. Cita, tra gli altri, Per chi suona la campana di Hemingway (libro sulla Guerra spagnola), poi una dichiarazione di Franklin Delano Roosevelt (sett. 1944), che avrebbero utilizzato il termine ‘fascismo’ per vicende diverse quando invece avrebbero potuto impiegare, magari, termini più appropriati come falangista o nazista o altro ancora. E invece non lo hanno fatto, perché siamo arrivati al punto che, per esempio, anche una espressione come Fascist pig (‘Porco fascista’) possa venir usata dai radicali americani contro i poliziotti, al posto di ‘Porco cagoulard’, ‘Porco falangista’, ‘Porco ustascia’, ‘Porco Quisling’, in quanto il fascismo come categoria sembra accogliere in se un po’ di tutto.
In effetti, Il termine è diventato metafora di tutti i mali. Ciò accade non per ragioni oggettive ma per questioni ideologiche (i comunisti in questo modo potevano dimostrare che c’era sempre un pericolo da combattere) e per questioni tattiche legate alle dinamiche della Guerra Fredda prima, e poi alla imposizione di un modello liberal-capitalistico che ha avuto (ed ha) necessità di individuare un nemico radicale che però non c’è. E quindi quale migliore definizione, dopo la fine del comunismo, per sintetizzare tutti i mali?
Quando Eco per avvalorare la sua tesi afferma che gli Ustascia, i falangisti e altri movimenti o partiti non hanno subito la stessa sorte perché è il fascismo ad incarnare tutti i mali, sbaglia perché la spiegazione storica è molto più banale. Quelli restarono chiusi nei loro confini nazionali. Il fascismo, in maniera improvvida e improvvisata, si schierò contemporaneamente contro le liberaldemocrazie e contro il comunismo. Fece la guerra al mondo e diventò nemico del mondo. Della riproposizione semantica in ogni salsa, abbiamo già detto.
Il comunismo, uscito vincitore dalla guerra mondiale poteva permettersi il lusso di puntare il dito su altri regimi e, di volta in volta, attivare l’allarme fascista (corroborato anche dai numerosi e imponenti partiti comunisti presenti sul suolo occidentale). Da lì a confondere il termine ‘fascista’, facendolo da aggettivo a sostantivo e viceversa, il passo è stato breve.
La natura del fascismo
Eco ha ragione quando afferma che il fascismo non fu totalitario. La sua coesistenza con la Monarchia e con la Chiesa ne è testimonianza. Sorprendente è invece che, poche righe dopo, lo definisce ‘totalitarismo fuzzy’, cioè sfumato. Il totalitarismo o è tale, quindi totalizzante, o non è. Delle due l’una, altre ipotesi non esistono. Quindi è o non è totalitario?
Afferma, inoltre, che il fascismo non avesse una filosofia e che Giovanni Gentile, oltre all’articolo firmato per Mussolini per l’Enciclopedia Treccani, non impose un modello culturale compiuto. E’ parzialmente vero. Il fascismo sotto il profilo delle caratteristiche culturali fu molte cose, ma alcune sono indiscusse e ben strutturate. E invece Eco ne fa discendere un penoso e piramidale guazzabuglio in cui si arriva a dire che la cultura fascista si sostanziava grazie ad una sorta di imbelli funzionari di partiti, ovviamente analfabeti, con qualche singola eccezione che confermava la regola, come <<quel Bottai, colto e ragionevolmente tollerante>>, oppure architetti con <<pseudo-colossei>>.
Guazzabuglio che smentisce indirettamente poche righe dopo, senza neanche accorgersene. Quando infatti parla degli intellettuali del futuro partito comunista, quelli educati dal GUF (l’associazione degli universitari fascisti), fa trasparire una ammirazione per la loro solida struttura culturale e il loro acume. E ammette che furono nascosti per decenni in questo <<calderone della nuova cultura fascista>> senza essere scoperti, non perché vi fossero fascisti <<tolleranti, quanto perché pochi di loro possedevano gli strumenti intellettuali per controllarli>>. In parole povere: i fascisti erano tutti ignoranti; quelli che non lo erano diventarono comunisti subito dopo. Sotto il fascismo, l’ignoranza dilagante dei quadri dirigenti permetteva ai più colti e preparati di sottrarsi alla vista e ‘imboscare’ scritti e pubblicazioni oltre che se stessi.
Anche qui, Eco nega la realtà. La quasi totalità di questi intellettuali stettero in disparte non perché in attesa del momento propizio (solo in parte fu così) ma in quanto fascisti che si costruirono una nuova verginità dopo la guerra. Ci sono decine e decine di nomi che evitiamo di citare perché oramai sono arcinoti al grande pubblico e che sono diventati personaggi altisonanti della cultura democratico-repubblicana. Erano fieramente fascisti. Diventarono fieramente ‘altro’.
Gli archetipi dell’UR-Fascismo
I fascismi sarebbero tanti come i suoi archetipi. <<Aggiungete>>, dice Eco, <<al fascismo italiano un anticapitalismo radicale e avrete Ezra Pound; aggiungete la mitologia nordica e il misticismo del Graal e avrete Julius Evola>>. Basta che una di essi si presenti per far <<coagulare una nebulosa fascista>>. Niente di più falso. Evola, Pound e molti altri sono diventati pilastri della cultura anticonformista dopo la guerra ma sotto il fascismo non erano tra le prime fila. I riferimenti che oggi vengono spesso rivolti a questi intellettuali sono sempre di carattere culturale. In nessuna parte del mondo si segnala la nascita di un regime fondato su una fantomatica ideologia evoliana, sull’anticapitalismo poundiano, eccetera.
Il fascismo ‘intorno a noi’
L’Ur-Fascismo (dice sempre Eco) è ancora intorno a noi. Può tornare sotto le spoglie più innocenti attingendo anche solo un paio delle tesi e dei valori di riferimento utilizzati dal Ventennio. Solo un paio tra il culto della tradizione,il rifiuto del modernismo, l’azione per l’azione , la paura della differenza, l’appello alle classi medie frustate (anche Obama, e prima ancora Clinton furono dunque fascisti?), l’ossessione del complotto (anche i Cinquestelle sarebbero fascisti?), la vita come guerra permanente e come conquista del mondo (ma Eco, qualche rigo prima, non aveva detto che il fascismo si caratterizza per l’esacerbato nazionalismo?), il disprezzo per i deboli, il machismo, il populismo che va da Piazza Venezia alla Tv o internet, parla la neolingua inventata da Orwell (ma 1984 o La Fattoria degli animali non vanno legati innanzitutto al comunismo?) basterebbero a far dare la patente di fascismo ad un qualsiasi regime dei giorni nostri.
In conclusione, tutto e il contrario di tutto. Messa in questo modo, quasi tutte le forze politiche possono essere tacciate di fascismo.