La frase che, in un sol colpo, meglio potrebbe sintetizzare profilo umano e intellettuale di Anna K. Valerio la ricaviamo dalla parte finale della sua biografia, scritta in terza persona: «…intanto, ha messo al mondo quattro figli, dai quindici anni ai dieci mesi». Perché questa filologa classica, è un unicum nel panorama contemporaneo. Scrive e si occupa di cultura nel senso più ampio del termine ma è distante dai radar del mainstream. Lontana dai salotti proprio perché altrimenti difficile diverrebbe, per lei, inseguire con uguale trasporto e intensità letteratura, arte e meta-politica mantenendo fede a quelli che un tempo venivano chiamati ‘valori di riferimento’.

Ha scritto per le pagine culturali del quotidiano L’Arena, ha pubblicato una raccolta di saggi nietzschiani (Per grazia, con grazia, Ar, 2004), inaugurato la collezione di Calligrafia erotica dal titolo “Le librette di controra” nel 2005 e l’anno dopo, con la sorella Silvia, ha firmato il romanzo Non ci sono innocenti. In queste policrome attività si è sempre misurata con temi e autori poco frequentati. Come una esploratrice solitaria, grazie a scritti che hanno lo splendore e la durezza della pietra capace di riscaldare i sensi o di farci perdere completamente nella caverna della modernità più tetra, ha percorso e precorso strade poco setacciate.

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Da qualche settimana è uscito il suo ultimo libro, Maravigliosamente (Edizioni di Ar, p.85, euro 11) che intreccia sue passioni e interessi attraverso una scrittura diretta e senza fronzoli, e capace perciò di pulsare tra la critica sociale e l’esegesi letteraria, le questioni etiche e le inezie politiche.

Il titolo, utilizzato anche nell’esergo all’inizio del libro («Maravigliosamente/ un amor mi distringe…», Jacopo da Lentini), offrirebbe la stura a voli pindarici di qualunque tipo e, invece, in alcuni capitoli ti soffermi anche su sciagurati argomenti di cronaca come «l’omicidio-vendetta di Vasto»o «il sedicenne suicida di Lavagna». C’è una relazione tra la «maraviglia» e il tragico?

 La «maraviglia» è un meraviglioso sentimento antico. Ha la grande complessità – o potrei dire anche la complessa grandezza – delle idee e dei sentimenti antichi. «Maraviglia» non è un semplice stupore lieto da fumetto rosa. È un sentimento vertiginoso, che ci insegna che c’è qualcosa di ulteriore rispetto alla dimensione mondana e ci attira verso l’abisso del mistero. Misteriosissimo il sangue di luce –la giovinezza infinita, sospesa –, che si intravede nel marmo della Madonna della Pietà di Michelangelo. Misterioso il mondo quando, nelle sue tragedie, ci appare come un nodo in gola da sciogliere in lacrime di compassione – no, di comprensione. Misteriosa la pura bellezza. Misterioso il vero sapere.  Le parole razionali e le leggi della tecnica non bastano certo a definirli.

 A proposito di decadenza e di meschinità quotidiane, tu scrivi: «A questi ragazzini, se volessimo salvarli, andrebbero strappati di mano sigarette, cellulari, bottiglie di alcolici e superalcolici, motorini e motorette (come ai loro genitori i conti all’estero, le bustarelle, le clientele, i favoritismi, gli scambi, la cocaina, le scampagnate a Dubai, le creme idratanti per lui e le manette sadomaso per lei, i posti di potere immeritati, le leggi ‘fragili’ – o complici –, il “pensiero debole”). Strappati di mano – subito e senza dolcezza ipocrita. Tolti gli alibi dei diplomini, degli Erasmus, delle vacanze studio. Poste regole chiare e infrangibili». Credi sia ancora possibile un cambio di rotta di questo tipo?

 Il possibile lo decidiamo noi. Ognuno di noi può tendere un agguato alla storia. Certo, occorrono volontà ed energia. E un’intelligenza capace di entusiasmo. Perché le regole da dare ai ragazzi devono essere «chiare e infrangibili», ma non grevi, non mortificanti, non contrarie al ritmo della vita. Devono palpitare, fremere. «La frase deve avere la durezza della pietra e il fremito del ramo». Enunciando questa regola estetica, Gómez Dávilaci regala un preziosissimo consiglio etico.

 Il sottotitolo è «Amore. Vita. Politica». Come (e se) si intrecciano nella tua esistenza queste tre parole?

 Nella mia (pazza) esistenza, sono sinonimi.

 Nel paragrafo sul Giappone eroico inviti a cogliere la bellezza nelle cose semplici: «Prima di arrivare ai sette (o ai quarantasette leggendari) samurai, bisognerebbe aver capito che non si può più restare ottusi nella solita indifferenza dopo aver visto una fioritura di ciliegi». Sei sicura che, come ‘moderni’, siamo ancora capaci di percepire tutto questo? Di ‘sorprenderci’ per una fioritura di ciliegi?

 La modernità è fatta di troppe parole e troppe pretese. La bellezza è invece essenziale e generosa. La modernità ci rende capricciosi e ottusi, ci abitua all’eccitazione e non alla sensibilità, ci rende reattivi solo di fronte alla perversione. E ci lascia depressi. L’unica soluzione, a questo punto, è… innamorarsi. Sarebbe un grande guaio politico se la destra si facesse fregare l’amore, l’eroismo singolare più potente e più possibile, dalla sinistra. L’innamorato è un collezionista di meraviglia. Tutto –la luna, i fiori di ciliegio, il profumo del glicine, la poesia, ma anche le più estreme trovate geniali dell’arte pop – gli sembra un’occasione di contemplazione appassionata, una specie di omaggio da poter offrire.

 E come pensi si possa difendere la bellezza… con quali strumenti pratici?

 No, le armi no. I musei neanche. Libri? Sì, ma devono essere vivissimi, abbaglianti. Mi viene da dire che la bellezza è indifendibile. Ma ci è continuamente davanti per invitarci.

 Scrivi di Sciascia, di Gómez Dávila e di Leopardi ma poi anche della ‘quasi’ sconosciuta Antonia Pozzi e di Pierluigi Cappello. In effetti, tutto il libro è percorso anche da nomi ignoti ai più o, almeno, poco battuti dalla critica contemporanea.

 Ho cercato i migliori. Che spesso non sono tanto bravi a fare dell’autopromozione e così sono ‘quasi’ sconosciuti. Ma superbamente indispensabili. Il tocco delle dita di Antonia Pozzi o Pierluigi Cappello, capaci di estrarre dal concitato rumore del dire quella parola perfetta, e poi quella, e poi l’altra, là, magari un monosillabo… Non è questa la sensibilità che ci permetterebbe di “disbrogliare” (dice Montale), di sciogliere il viluppo del caos?

 Incroci nomi ma anche sentieri poco battuti. Nel paragrafo Sull’eugenetica tradizionale scrivi in maniera perentoria che intorno ad essa si sviluppano «proposte indecenti quali l’utero in affitto, negazione del rischioso, eroico, teurgico splendore della generazione. Resa al capriccio ‘isterico’ che si finge umano». Siamo andati troppo oltre?

 Non so se chi lotta per l’utero in affitto abbia mai messo il proprio utero a disposizione della generazione. Perché, se così fosse, saprebbe bene che cosa significa. Significa mescolare, in quel buio, sangue e destino, i vivi e i morti, il passato e il futuro. Significa che quello che ti succede come madre si riverbera nel tuo utero e passa al bambino, anche senza la mediazione del cordone ombelicale. Tremila anni fa, l’Ayurveda aveva ben presente questo nesso, e la sua delicatezza, e le indicazioni che offriva alle aspiranti madri (ma anche agli aspiranti padri) sono le più preziose che una gestante possa conoscere. Si sono conservate solo nelle culture tradizionali. Il premio Nobel Rigoberta Menchú raccontava che al settimo mese di gravidanza usciva nei campi e stava a contatto con la natura per insegnare al suo bambino la vita che lei viveva.

 Ma credi sia possibile tornare indietro? Nel libro citi più volte Heidegger il quale ha scritto pagine decisive sulla Tecnica, pur tuttavia asserendo che essa non si fermerà più davanti a nulla. Hai ancora fiducia nel ‘rinsavimento’ della umanità?

 L’umanità si troverà un giorno (s)travolta dalla nostalgia. E lì si riscoprirà umana.

Mi spieghi perché hai inserito uno scritto su Matteo Salvini?

 Lo scritto su Salvini è solo un’occasione per ricordare ai politici attuali che quello del demagogo è un potere impotente. Sarebbe così facile, invece, oggi, sognare la politica, interpretare il futuro. Io comincerei dalla scuola. Con la respirazione bocca a bocca… Europa sì, Europa no mi sembra una questione di importanza molto minore, quasi banale. I problemi connessi con l’emergenza migratoria vanno affrontati con pacatezza, andando a vedere sul campo come funziona ora la macchina dell’accoglienza, che, come mi riferisce chi la conosce da vicino, fa acqua da tutte le parti. E se proprio si vuole fare la guerra alla mafia, beh, si guardi alla mafia, così italiana, delle amicizie, degli scambi di favori, a questa colla che appiccica le ali del merito come fa il petrolio con quelle dei cormorani.

 

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