Morto Tom Wolfe, il nemico dei radical-chic
Lo aveva creato lui, nel 1970, il termine «radical-chic». Fino ad allora, condensato in una pruriginosa selva di aggettivi e di lunghe elucubrazioni derivanti dall’incandescente magma liberal-progressista ma, per chi avesse sensibilità fuori dall’ordinario, con tentacoli sempre più pervadenti con i quali iniziava a mordere il buon senso, le tradizioni, il profondo legame tra il singolo individuo e i valori ricavati dalla quotidianità, dalle consuetudini e abitudini familiari e sociali.
Tom Wolfe è morto a New York all’età di 87anni dopo aver attaccato tutti i pilastri del politicamente corretto e smascherato con elegante violenza verbale le sue estensioni in superficie.
Molti lo ricordano per Il falò delle vanità; altri, quale padre del New Journalism, stile nato negli anni Sessanta, e che alternava cronaca e invenzione. Ma egli fu, forse, uno dei primi (negli Usa, sicuramente il primo) ad aver intuito la totale falsità nell’evo contemporaneo del connubio tra proletari e sinistra, tra certa intellettualità schizzinosa e culturalmente razzista e la classe operaia, tra progressisti di governo e massa.
Lo diceva con lucidità disarmante utilizzando termini e concetti che sono diventati da tempo di uso comune: «attraverso Radical Chic descrivevo l’emergere di quella che oggi chiameremmo la “gauche caviar” o il “progressismo da limousine”, vale a dire una sinistra che si è ampiamente liberata di qualsiasi empatia per la classe operaia americana. Una sinistra che adora l’arte contemporanea, si identifica in cause esotiche e nella sofferenza delle minoranze ma disprezza i rednecks (i bifolchi, ndr) dell’Ohio».
Oggi, per noi europei e, in principal modo italiani, è facile ritornare su questa frattura e cincischiare gaudenti su dati elettorali che vedono prevalere nei ‘quartieri bene’ di Roma o di Milano il Partito Democratico e, invece, nelle più torbide e malfamate periferie le destre di vario ordine e grado. A leggere i suoi articoli era già tutto scritto da decenni.
Wolfe lo aveva intuito e vomitato in faccia a quegli intellettuali alla moda, artisti e personalità varie che inondano i ‘media’ e strabordano fino a marchiare il loro successo professionale di tonalità e finalità ieratiche e simil-mistiche. E lo aveva fatto senza infingimenti o sotterfugi lessicali tanto da mantenere intatta la sua posizione fino all’ultimo, quando è riuscito a spiegare i fatti politici recenti sempre e comunque all’interno di immutati parametri interpretativi: ««Il politicamente corretto – rispondendo ad un intervistatore di Repubblica non più di qualche mese fa – è diventato uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai bifolchi e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale. Ormai la gente deve fare attenzione a ciò che dice. E va di male in peggio soprattutto nelle università. La forza di Trump nasce probabilmente dall’aver rotto con questa cappa di piombo».
Dunque, Wolfe le aveva irrise anzitempo quelle sinistre, partendo dall’accusa più violenta e gravida di significati etici prima ancora che politici: quella di razzismo. Li aveva frequentati e sbugiardati, avendo riconosciuto in questi dispensatori di ecumenismo un tanto al chilo delle maschere da commediuola di quart’ordine, seppur per un breve tratto di strada aveva condiviso con loro stessi salotti e forse stesse letture e gusti artistici.
Ha sempre mantenuto questi profondi tratti di originalità e di anticonformismo tanto da riaffermare, anche recentemente, una sua lontananza assoluta dalle lagne del MeToo e perciò si era espresso in termini brutali e ruvidi, come aveva fatto su ogni altra questione anche in passato: «Nessuno si prende la briga di definire esattamente cosa si intende per aggressione sessuale Improvvisamente ci troviamo in opposizione con le leggi naturali dell’attrazione che ora bisognerebbe ignorare. Le donne dispongono di un potente strumento di intimidazione che prima non avevano».