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«Coscienza stilistica della Germania»: così Nicolaus Sombart, figlio del più celebre Werner, definì Jünger, di cui parlò in un ampio saggio, uscito su «Der Tagesspiegel» il 29 marzo 1995, e che Bietti pubblica per la prima volta in Italia.

Di seguito, l’introduzione integrale di Luca Siniscalco

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Due dandy s’incontrano. Accade spesso, tuttora, nei salotti mondani e negli ambienti bohémien. Quando però gli esteti in questione sono anche scrittori, sismografi del proprio tempo e palombari dello spirito, accade il miracolo. Nel 1995, sulle pagine di «Der Tagesspiel», un Nicolaus Sombart (1923-2008) settantenne incontra letterariamente un Ernst Jünger (1895-1998)
centenario. Un evento epocale.

Lo storico delle religioni Mircea Eliade teorizzò il paradosso della “irriconoscibilità del miracolo”: sebbene tutto il cosmo sia intriso di mistero e non faccia che parlarne incessantemente, esso appare, incarnato nella storia e nella natura, come un’alterità mai conoscibile nella sua interezza, percepibile soltanto nei suoi camuffamenti. Si tratta jüngerianamente di avvicinamenti all’Ineffabile, a quel dominio dell’Origine le cui irradiazioni giungono an der Zeitmauer, al Muro del Tempo. Di questa pulsione spirituale prepotente, insopprimibile eppure mai dogmatica, si ha piena contezza nella sublimazione estetica tramite cui Nicolaus Sombart foggia il proprio omaggio a Ernst Jünger.

Figlio di Werner, il celebre rivoluzionario-conservatore studioso della metafisica del capitalismo, Nicolaus è uno scrittore poliedrico e raffinato. Intinge il suo calamaio nei nervi più intimi e controversi della cultura germanica, vivendone l’identità in un complesso – e, a tratti, contraddittorio – rapporto.

Formatosi per estrazione familiare negli ambienti dell’intellighenzia tedesca, sin da giovanissimo nutre rapporti amicali e intellettuali con Carl Schmitt e Sergiu Celibidache. Dopo la Seconda guerra mondiale, è tra i fondatori del movimento culturale Gruppe 47 e si avvia a un’autonoma carriera intellettuale. Entra in contatto con Gershom Scholem (probabilmente nell’autunno del 1981), con cui intrattiene un denso epistolario sulla questione dell’antisemitismo. Studia la Germania guglielmina, rileva i nessi degeneri di cui, a suo avviso, la tradizione prussiana, militarista e patriarcale si è fatta alfiere, e che nel Nazionalsocialismo hanno dispiegato tutta la propria potenza tanatofila – un annichilimento antimoderno del femminile, così lo definisce, in termini simbolici e psicologici. Sombart critica tale tradizione, ma al contempo la provoca e interroga senza posa: mai subirà il fascino castrante della postmoderna cultura del piagnisteo, abbeverandosi piuttosto al cosmopolitismo di marca europea e alla secolare cultura del Grand Tour. Per lui, infatti, come sottotitola un suo saggio, l’illuminismo è sempre erotico. Più vicino a un Goethe che a un Bernard-Henri Lévy, per intenderci.

Professionalmente ricopre per trent’anni l’importante carica di funzionario del Consiglio d’Europa a Strasburgo, finché l’Heimweh, il romantico “mal di patria” teutonico, lo riporta a Berlino, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita, dedicati all’insegnamento (anche nella prestigiosa Freie Universität), alla scrittura e alla pubblicazione delle sue opere più significative. «Sono tornato in Germania perché avevo bisogno di sentire parlare tedesco attorno a me» rivelò in un musicale italiano alla studiosa Silvia Gajani, in visita alla sua casa berlinese.

Sombart non smetterà mai di studiare e interpretare il pluriverso della Konservative Revolution, da letterato, sociologo, storico e psicologo (in senso nietzschiano, ricorrendo a una “fisio-psicologia” delle pulsioni). Formula, inoltre, un’utopica teoria della “liberazione” sessuale all’interno di un progetto di rinnovamento socio-politico funzionale alla tutela della libera possibilità di sviluppo e determinazione da parte dell’individuo. Entro una prospettiva che, tuttavia, non si limitava al razionalismo freddo e calcolatore. Bruno Goetz gli insegnò, infatti, a «dominare la sfera profana», facendosi catturare da quella sacra, tanto da asserire: «Il famoso disincanto del mondo, in realtà, non mi ha mai irritato, visto che conoscevo il mistero del suo incantamento, che dovevamo derivare ogni volta dal fondamento sacro della nostra esistenza».

Con Carl Schmitt, come racconta nei suoi diari, trascorse moltissime giornate a passeggiare nel Grunewald, immerso in un profondo dialogo filosofico che lo segnò indelebilmente su un piano umano. Alla disamina critica del suo pensiero politico – e al processo di distanziamento intellettuale dal suo mentore – dedicò, nel 1991, il testo Gli uomini tedeschi e i loro nemici: Carl Schmitt, un destino tedesco fra ordine virile e mito del matriarcato. Difficile comprendere – lo si deve pur ammettere –, partendo da alcuni dei pregiudizi modernisti che albergano in Sombart, l’immensa teologia politica di Schmitt: il suo intelletto raffinato, tuttavia, unito a una vasta cultura, lo ha fatto approdare a riflessioni affascinanti, che evocano la grande letteratura del passato.

Con Ernst Jünger, come emerge dalle pagine qui tradotte, intrattenne un dialogo ugualmente sottile, sebbene soltanto interiore. Di Jünger Sombart rifiuta l’orizzonte politico e il mito del Lavoratore. Gli è certamente più vicino, per stile e postura, lo Jünger romanziere, il narratore di viaggi, l’entomologo del mondo dei miti e il vaticinatore della società che ci attende. Ma, soprattutto, ad affascinarlo è il dandy, quel maestro di stile ed estetica che eccelle nel coltivare la Bellezza, collezionare raffinati aforismi e intarsiare con ogni suo gesto i misteriosi e caotici anfratti chiaroscurali della vita, i suoi enigmatici labirinti. L’uomo, sembra dirci Sombart, non ha alcuna verità da contraddire: è piuttosto la verità a contraddire il suo stesso agire, mettendone in mostra la costitutiva fragilità.

Jünger viene letto da Sombart come un crocevia fra identità provinciale tedesca e ideale di vita occidentale: il dandy attraversa le scogliere di marmo per abitare, infine, una foresteria.

Il tipo del Dandy – riconosciuto sempre più rilevante su un piano filosofico, e non solo letterario – è una figura pienamente antimoderna (lo conferma Antoine Compagnon, nel suo celebre Gli antimoderni): rifiuta con ardore l’utilitarismo e il materialismo della peggiore secolarizzazione. Non cerca il senso dell’esistenza nel concetto – sia esso teoretico o scientifico –, predilige consistere nella percezione sensibile che s’invera nell’istante. Qui diventa quadrimensionale, realizza che l’hic et nunc è la chiave per spezzare il tempo diacronico e l’accelerazione capitalista della temporalità lineare. Vive costantemente sotto lo scacco dello spleen e del dolore, in una nostalgia di cui si compiace ma che talora riesce, per pochi istanti, a spezzare. Pratica una mistica urbana, è un girovago apolide, un profeta dell’apolitìa, un Anarca. Conduce un’esistenza fatta di rêverie e flânerie, tesa all’artificio e alla sublimazione, mossa dall’amore per la superficie (una passione greca, stando a Nietzsche). È un ambivalente rivale dello snob, suo affettato emulatore protagonista del vivere in-civile – «perché lo snob è un demente, nell’etimo “lontano dalla mente”, un depensante» (Alfredo de Giglio). Dato che «l’eroe moderno non è un eroe», il dandy «recita le parti dell’eroe. L’eroica modernità si rivela una tragedia nella quale il ruolo dell’eroe è ancora scoperto» (Walter Benjamin).
Forse, semplicemente, il dandy conosce la bellezza della contraddizione: il piacere estatico dello scontro tra tesi diverse – da cui solo, stando a N. G. Dávila, emerge la verità, «l’insieme delle contraddizioni in cui incorrono gli uomini intelligenti» (Escolios a un texto implícito).

Sombart intercetta queste riflessioni, ad alcune solo allude con verecondia. Le sue parole hanno il pregio di offrire molteplici segnavia: dietro ogni frase si cela un libro, un autore, un’esperienza personale. Decifrandone la scrittura ci si avvicina a quell’arcanum che, come Sombart afferma altrove, è l’orizzonte dell’immaginazione mitopoietica di Schmitt – ma che in Jünger, a nostro avviso, celebra il proprio trionfo.

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