Da qualche giorno è uscito Le radici della modernità di Francisco Elias de Tejada (Solfanelli editore, p.180), volume curato da Giovanni Turco che lo correda con un’ampia ed esauriente introduzione di cui riporto, qui di seguito, qualche brano

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Nell’analisi tejadiana le origini della modernità coincidono con quelle dell’Europa, modernamente assunta, pur esorbitandone quanto all’essenza, alle implicazioni ed all’estensione. L’Europa vi è intesa non quale erede della civiltà greco-romano-cristiana, ma come la realizzazione di “un’idea” (ovvero di una nozione che è al tempo stesso un progetto), ovvero di una Weltanschauung sostanzialmente alternativa a quella.

Elias de Tejada individua una opposizione assiologica tra Europa e Cristianità. Entrambe sono intese sia come determinazioni teoriche sia come paradigmi storici. In questa prospettiva, la prima non è la prosecuzione della seconda, piuttosto ne è l’antitesi. Lo spirito dell’una è inconciliabile con quello dell’altra.

Mentre è costitutiva della prima l’eredità della filosofia greca, del diritto romano e della Rivelazione cristiana; la genealogia della seconda è quella della secolarizzazione ed i suoi teorici sono (a vario titolo e sotto distinti aspetti) quelli della modernità. (…). La Cristianità non è solo un dato storico, ma costituisce un modello ideale, che Tejada definisce come «la civiltà della tradizione cristiana», in quanto comunità gerarchica di popoli, vincolati organicamente. La Cristianità indica l’essenza di una civiltà, sicché ha un’esemplarità non circoscritta ad un tempo e ad uno spazio. La socialità vi si incontra in forme plurime e stratificate, dalle corporazioni, alle confraternite, dai municipi alle università. La pace vi è consentanea, quale tranquillità dell’ordine, non come neutralizzazione del conflitto, né come coesistenza degli arbitri, né come equilibrio di forze. Al tempo stesso, la Cristianità ha il senso vivo della libertà, nella concretezza di consuetudini e di diritti, nella connessione delle finalità, onde il bene è misura e contenuto della libertà. La Cristianità reca in sé la tensione verso l’unione sulla base di fattori essenziali: religiosi, intellettuali, morali. Essa è unitiva senza essere unitaria, universalistica piuttosto che mondialistica. È un’unione nell’universale, non un’assimilazione nel cosmopolitico. Si tratta di una unificazione nella diversità, ove l’unità non esclude la molteplicità, giacché tanto la prima quanto la seconda non presumono di essere dirimenti in se medesime, ma trovano il loro ubi consistam nell’ordine assiologico e si diramano in un intreccio su base naturale. Ben diversa tanto dall’omologazione quanto dalla dispersione.

La crisi delle istituzioni della Cristianità si manifesta nell’età del tardo Medioevo. Essa ha una profondità che travalica i sin[1]goli avvenimenti, pur trovando in essi altrettanti sintomi ed altrettanti momenti. La sua crisi è quella dell’incidenza dei principi che ne hanno assicurato la genesi e la durata, ovvero dei fattori ideali agglutinanti – teologici, intellettuali, politici e giuridici – tali da offrire le basi di un’intima coesione. È la crisi rispetto ai suoi pilastri: la Chiesa e l’Impero, ed è la crisi «dell’unità dei popoli cristiani», che è anzitutto religiosa.

Tejada fa osservare che i fattori della crisi dell’Impero erano latenti nel suo seno: da una parte gli impulsi ad imporsi sul Papato e dall’altra l’egemonia di una casata su altre (le quali pur si consideravano di pari rilievo rispetto ad essa). La frattura dell’unità religiosa della Cristianità (occidentale) segna, al contempo, la debilitazione dell’autorità dell’Impero e un offuscamento del prestigio del Papato.

La diagnosi tejadiana rimarca che la crisi della civiltà cristiana romano-germanica si apre con la frattura dell’unità religiosa, dovuta alla diffusione del protestantesimo. Lungo la traiettoria che precede la crisi del XVI secolo, l’universalità dell’Impero si ottunde e la sua incidenza si restringe ad ambiti sempre più ristretti. La sua pretesa di prevalere sul Papato, lungi dal rafforzarlo, lo indebolisce. A sua volta, l’ingresso del Papato nell’orbita politica francese ne segna una certa estenuazione nella proiezione effettiva. Nel complesso, le divisioni interne minano la compagine della Cristianità e pongono le premesse (indirette) della sua disgregazione. (…) Sotto il profilo concettuale – nell’analisi di Elías de Tejada – lo sviluppo dell’Europa corrisponde all’instaurazione della Rivoluzione, e questa al compimento della modernità. In tal senso, le nozioni di Europa, di Rivoluzione e di modernità, si corrispondono, rispettivamente. In certo modo, stanno tra loro come l’attuazione, il dinamismo e l’essenza, di un medesimo processo. Né la prima si limita ad un perimetro geografico, né la seconda si restringe ad avvenimenti particolari, né la terza si circoscrive in un arco temporale.

Tali nozioni trovano la loro perspicuità solo se intese categorialmente, ovvero nell’essenzialità che ne connota la capacità diacritica. Nondimeno nella misura in cui passano dalla teoria alla prassi si condensano in passaggi epocali, in mutamenti sostanziali ed in istituzioni fondamentali. Lungo tale asse, la Rivoluzione può essere intesa sia come categoria sia come processo, sia come epoca.

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