Di seguito, la mia recensione del volume Voci dal silenzio. Un viaggio tra gli eremiti d’Italia di Joshua Wahlen e Alessandro Seidita, uscita qualche giorno fa sulla rivista Pangea

 

                                           ***

 

È un viaggio singolare quello iniziato nel 2010 da Joshua Wahlen e Alessandro Seidita. L’intenzione dei due giovani registi era quella di portare a compimento un documentario con interviste agli eremiti d’Italia. Una sorta di ricerca etno-antropologica sulle tracce di «monaci, alchimisti, sufisti e curanderi» investigando su questi strani tipi che le cronache ci restituiscono sempre con la classica barba bianca, dei vestiti consunti e, quando non assorti nella preghiera, aggrovigliati in forme di mortificazione estrema.

A spingerli forse anche un pizzico di morbosità e l’intimo convincimento di poter diradare le brume di quelle bizzarre scelte di vita grazie a un approccio dialettico deciso e poco sussiegoso. Ma quel primo tratto di strada fu breve. Sei anni dopo sentono la necessità di intercettare di nuovo quelle esperienze ascetiche, ma con lentezza e gradualità, in modo da dilatare quel cammino nello spazio e nel tempo.

Il tentativo è quello di indagare la verticalità della vita eremitica senza più nessuno schermo mentale precostituito. Così, acquistano un altro camper e ripartono. Su quell’esperienza si struttura prima il documentario che, uscito nel 2018, ottiene numerosi riconoscimenti internazionali e ora un libro, Voci dal silenzio (TEA edizioni, p. 240), in cui grazie alla posata compiutezza della parola scritta possiamo approssimarci alla sorgente che alimenta questo rinnovato senso del vivere umano.

C’è però uno snodo in questa vicenda. Il vincolo prestabilito tra intervistatore e intervistato viene sotterrato da Padre Isacco con la più ingenua e disarmante delle domande: «Siete dei pellegrini?». Inizia sin da subito a fibrillare qualcosa nei due viaggiatori, che li porta a far maturare una diversa dimensione d’ascolto. In realtà, sono gli stessi eremiti a predisporre – forse in maniera inconsapevole – un cammino di comprensione reciproca e a non limitarsi al racconto della loro esperienza di isolamento, anche perché ogni eremitaggio si svela denso di esperienze pregresse: c’è chi viene da una vita coniugale, chi dalla vita monastica, chi da una condizione disordinata e dissoluta. E poi, nonostante rassomiglianze formali (vangano, seminano la terra, cucinano, si procurano la legna e l’acqua, scolpiscono la pietra, disegnano icone, lavorano il cuoio), hanno poco o nulla degli asceti di mille anni fa. In molti eremi sono infatti predisposte delle stanze ad accogliere gli ospiti e alcuni eremiti possiedono un cellulare per mantenere contatti con l’esterno.

Eppure, non solo dai silenzi o dalle risposte criptiche, ma anche da quelle più disarmanti e banali che si riesce a percepire un tratto unitario che svela una prima verità: la fuga non è negazione della realtà ma possibilità per un nuovo sguardo di osservazione. Si entra in un eremo per lasciare la vita ma solo dopo averla conosciuta e per riconsegnarsi al mondo in una forma più autentica e vera.

Così si presenta Suor Paola, che vive dalle parti di Saluzzo, in un ex essiccatoio per castagne trasformato in baita. Aveva un marito e tre figlie e ora offre sostegno a giovani coppie e famiglie in difficoltà. Antonio, invece, alterna periodi solitari ad altri in cui si concede al contatto con i fedeli mentre Maurizio, che si è rifugiato in un piccolo comune dell’entroterra calabrese, si propone come guida senza chiedere denaro.

Fra Cristiano, eremita francescano nell’alta Lunigiana ed ex medico nelle zone di guerra chiarisce ancora di più i contorni della scelta: «Io non sono fuggito dalla mia comunità. Non sono fuggito dalla città. Se c’è stata una fuga, è stata quella dai luoghi anonimi, dall’impossibilità che dà la vita frenetica, dai rumori. La ricerca spirituale è contemplare il volto di Dio, ma il volto di Dio io lo contemplo ovunque, anche nei vostri volti».

A fare il definitivo passo in avanti è Frederic Vermorel dell’Eremo di Sant’Ilarione con esperienze in comunità monastiche sparse per il mondo. Laurea in Scienze politiche, giornate scandite dalla liturgia delle ore e dal suono della cetra, Frederic passa molto tempo a tradurre testi filosofici in diverse lingue ma, alla fine, spiega: «Siamo sempre figli del nostro tempo, di un tempo preciso. L’atemporalità non esiste. E c’è un cambiamento sia perché ciascuno di noi, prima di essere eremita, era altro – abbiamo tutti una storia e una preistoria, siamo figli di una famiglia, abbiamo avuto degli amici, possibilmente un mestiere –, sia perché cambia il contorno, le cianfrusaglie cambiano. Cinquant’anni fa un eremita su Facebook non c’era».

Nel viaggio di ritorno, quando i due registi si allontanano definitivamente da quei posti, sono le parole di un eremita che ha preferito rimanere anonimo a dar loro la chiave di decifrazione del tutto: «Quando si prende lentamente coscienza della nostra finitezza, del nostro essere nulla, se non veniamo paralizzati da quel primo turbamento, poi c’è solo meraviglia».

La stessa meraviglia che segna il ricordo di Rosalba che vive in una grotta a fianco del santuario della Madonna di Oulx. Con sé, solo un vecchio materasso, qualche coperta e una piccola lampada ad olio per la notte. I due la attesero per giorni e giorni con esiti infruttuosi: «Il Signore oggi non vuole, ma domani chissà», bisbigliava ogni volta che il sole calava all’orizzonte e lei completava la sua quotidiana processione.

Alla fine, quel domani non è mai arrivato, e da quella che appariva come una imbarazzante fenditura tra le parti prende forse le mosse una rinnovata consapevolezza verso l’idea stessa del ‘viaggio’, che non può metaforicamente esaurirsi in tappe sempre decifrabili ma procedere per gradi di crescita, talvolta anche incomprensibili e, all’apparenza, prive di alcuna utilità.

 

 

Tag: ,