Chiedersi cosa sia la destra, due decenni dopo l’inizio del terzo millennio, può risultare esercizio sfiancante per gli analisti e soporifero anche per il lettore più diligente e appassionato.

Il buon Prezzolini, mezzo secolo fa, tirò fuori con l’acume che gli era proprio una sintesi analitica perfetta che si fa fatica ancora oggi a confutare. A chi gli chiedeva quante fossero le destre, rispondeva laconico e irridente: «Sono tre, trentatré o trecentotrentatré»… e, in fondo, a restare su questi paradigmi, potremmo replicare ciò che si va dicendo da tempo immemore e che nella sua asciutta naturalità descrive il vero. La destra è infatti racchiusa sul piano teoretico generale in poche formule: essa si consacra con molta schiettezza alla realpolitik e, in linea di massima, ha una vocazione religiosa, patriottica e comunitaria; o almeno, dovrebbe essere rappresentativa di un mondo che fa riferimento a tutto ciò.

Queste tesi vanno però poi calate nella realtà, praticate nel dibattito parlamentare e soprattutto inverate nella quotidianità del conflitto politico e sociale e nella pratica dell’amministrazione pubblica. Ma è proprio in questa quotidianità che si ripresentano le contraddizioni e con esse le trecentotrentatré destre.

Almeno sul piano della qualità dell’azione politica e dei risultati raggiunti, la messa in pratica di questi dettami ha infatti smentito ogni più rosea previsione. Un’orda di parvenu catapultati in ruoli e responsabilità molto più grandi delle loro reali capacità professionali e politiche sta operando in direzione uguale e contraria da almeno tre decenni; e quando, pur con ogni sforzo possibile, tenta di raddrizzare la barra per riconvertire quei dettami teorici in pratica politica, fallisce ogni tentativo o lo depotenzia a tal punto da sfibrarlo alla radice.

Perché accade tutto ciò? Forse per mancanza di connessione tra l’impianto dei principi, la qualità della classe dirigente e una oggettiva impraticabilità nel contesto politico. Ma non è solo questo! I tempi sono profondamente mutati più di quanto sia accaduto in ogni altra epoca storica. La postmodernità ci mette di fronte a sfide etiche nuove, la Tecnica sobilla dalle fondamenta ogni nostra antica certezza e il mondo si sta posizionando su paralleli valoriali del tutto inediti; di concerto, le vecchie categorie politiche sembrano (sono!) un passo indietro, se non proprio insignificanti sotto il profilo delle azioni di governo, perciò sempre asfittiche e inservibili.

A dare uno scossone a questo tipo di lettura stagnante è il bel libro di Antonio Carulli, Teoria della destra contemporanea. Nuovi indirizzi per vincere le sfide del presente e del futuro (Idrovolante edizioni, pp.490) in cui ogni antica ipotesi analitica è saltata a piè pari, senza però essere messa in disparte in maniera definitiva. Non viene depennata a inservibile ideologia ma nemmeno raschiata fino alle fondamenta per essere del tutto eliminata.

Un libro strano, per certi versi futurista, in cui si miscelano aforismi, frammenti dal taglio filosofico, confessioni private, analisi politiche, brani in corsivo o intere frasi in maiuscolo. Non un classico saggio strutturato in rigorosi paragrafi e capitoli ma un volume che esonda di vitalità e di caos, da cui il lettore può trarne una lettura arricchente. Heidegger, de Maistre, e poi la Tecnica, la bioetica, l’eutanasia e mille altri temi dispiegati senza alcuna grettezza manichea e volontà di preservare una parte dall’altra. Un sentiero che tenta di andare oltre «la stagnazione del paradigma teoretico della Destra» e soprattutto un invito al caos dell’intelligenza per ritrovare il viottolo seminascosto della tradizione e un senso etico immutabile.

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