Machiavelli liberale o liberali con Machiavelli?
Se restiamo impiantati alle consuete definizioni sui valori e principi della società aperta e del liberalismo dovremmo attenerci a concetti quali il politeismo dei valori, il principio di competizione, l’economia di mercato, la sovranità del consumatore, l’individualismo metodologico o il fallibilismo epistemologico. Ma taluni di questi elementi attengono alla fase storica recente, quella in cui il capitalismo si è dispiegato nel grande fiume della globalizzazione, mentre è fuor di dubbio che indizi del pensiero liberale li troviamo a partire dalla Riforma e dal Rinascimento, quindi nella complicata fase della lotta per la libertà religiosa, fra la nobiltà inglese e gli Stuart per ottenere dalla Corona garanzie sul piano giudiziario e politico, fino all’affermazione della dottrina di Montesquieu sulla divisione e l’equilibrio dei poteri.
Giancristiano Desiderio tenta questo percorso a ritroso col suo ultimo libro: Machiavelli e il liberalismo (Rubbettino, p.108). Percorso a prima vista azzardato perché ci impone già in premessa due seri interrogativi: 1) Cosa si può aggiungere di nuovo più di quanto non sia stato detto su Machiavelli? 2) E, soprattutto, quali sono gli snodi che ci portano a trovare dei legami tra il fondatore della scienza politica moderna e il liberalismo?
La questione è controversa. Il Segretario fiorentino resta il pensatore politico più discusso della cultura occidentale e le interpretazioni dei suoi scritti spesso divergono in maniera netta. A metterci in guardia ci aveva già pensato Prezzolini all’inizio del secolo scorso: «Nacquero tanti Machiavelli: quello dei Gesuiti, quello dei patrioti, quello dei filosofi, quello degli enciclopedisti, quello dei protestanti e dei cattolici, quello dei letterati».
Allora, bisogna prima di ogni cosa intendersi sul liberalismo. Per Desiderio il nucleo vitale del liberalismo è costruito intorno alla limitazione del potere e in favore della libertà degli uomini cosicché: «Il giusnaturalismo, il positivismo, il liberismo, il costituzionalismo non sono liberalismo perché non garantiscono la concreta limitazione del potere». La teoria della libertà non sarebbe un elenco di diritti ma la possibilità che la vita umana possa esprimersi nelle sue molteplici attività politiche, economiche ed etiche. Se il potere per essere efficace deve separarsi da tutto il resto e imporre sé stesso c’è il pericolo che possa scadere in ideologia la quale nasce proprio dall’illusione di potersi astrarre dalla realtà, «dal gioco di virtù e fortune», in modo da dominare il gioco della vita.
L’incrocio tra Machiavelli e il liberalismo avverrebbe proprio in questo punto, vale a dire sul terreno del realismo politico. Il realismo limita il potere per non farlo tracimare nelle vite di ognuno di noi. E il realismo politico studiato, descritto e sostenuto da Machiavelli è il presupposto senza il quale il liberalismo non avrebbe le basi per stare in piedi e difendere la libertà individuale.
Anche per questo la “questione del machiavelli”, così come la definì Croce, resterà – nonostante mille interpretazioni – sempre aperta perché all’uomo, una volta escluso il dato ideologico, non resta che l’attività più banale e importante: quella di vivere, e di essere chiamato a vivere in modo libero e degno.
Il realismo politico di Machiavelli sarebbe dunque il presupposto attraverso il quale il liberalismo – così come lo conosciamo – avrebbe posto le basi per difendere la libertà individuale: «Ciò che è decisivo è che la teoria della libertà è in fin dei conti una teoria del pluralismo perché mantenendo fermo il momento dell’autorità legale – ossia il certo, la forza, il diritto, lo Stato, il governo e, insomma, il criterio politico nelle sue varie forme – lo limita impedendo ogni illegittima tentazione di assolutismo».
Ma c’è di più: in Machiavelli, con la Virtù e la Fortuna, c’è una completa filosofia per tenere a bada il dispositivo totalitario moderno. Quando rammentava agli uomini politici e ai pensatori del suo tempo di tenere distinta la politica dalla morale non faceva altro che tratteggiare i contorni della libertà. Guardava infatti con attenzione e scrupolosità ciò che lo circondava per trarne empiricamente le leggi: «Mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua».
È su questa linea che Desiderio tenta di sciogliere l’annoso dilemma su chi sia (o cosa sia) il Principe; se una volpe, un leone, uno Stato, un dittatore, un consigliere eccetera. Machiavelli teneva viva la fiammella di quell’utopia chiamata “Italia” e, allo stesso tempo, non ignorava che l’uomo è aduso al gioco delle maschere, capace di simulare e dissimulare, pronto all’ipocrisia. Questo impasto di contraddizioni poteva essere retto solo da un uomo capace di tenere vivo il governo di sé e quindi essere principe di sé stesso.