Malvagità del bene. Progressismo e parodia della tradizione
Globalizzazione, mondialismo, immigrazione di massa, ideologia gender, transumanesimo sono alcuni dei temi affrontati da Flavio Ferraro in La malvagità del bene. Il progressismo e la parodia della tradizione in uscita per le edizioni Irfan.
Ne riproduciamo di seguito un breve estratto.
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La cosa più stupefacente è che coloro i quali aderiscono senza riserve ai dogmi dell’ideologia progressista − nell’ingenua convinzione che essa si erga a difesa delle diversità e delle libertà individuali − non si accorgano come essa miri in realtà alla sistematica distruzione di tutte le identità e le differenze, di tutto ciò che conserva un aspetto qualitativo capace di sfuggire all’omologazione mercantilista. Quello a cui tende la visione globalista è la creazione di una società in cui l’alterità sia scomparsa, dove dappertutto si ritrovi il medesimo, l’uguale, l’identico; una sorta di tirannia dell’uniforme dove, come in un deserto, ciò che è diverso stagli nettamente i suoi contorni e dichiari, con la sua semplice presenza, la sua natura irriducibile a questo sfondo omogeneo: ed è così che l’Altro scompare (…)
L’Altro è ciò che interrompe l’indifferenziato: è il confine, il limite, il discrimine. E come la lontananza è la condizione necessaria di ogni dialogo, così ogni tendere, ogni muovere incontro all’Altro presuppone una distanza da attraversare; il confine è ciò che separa, ma è allo stesso tempo ciò che unisce: è a partire da una soglia che noi andiamo incontro all’Altro. Senza confini l’alterità scompare, senza distanze il dialogo diviene afasia.
Oggi il potere ci vuole muti e soli, ed è per questo che in maniera ossessiva ci invita ad abbattere i muri, ad annullare i confini, a dissolvere le identità. Le civiltà tradizionali, al contrario, consideravano i confini sacri e inviolabili: è Romolo, colui che tracciò i confini, a fondare la Città per antonomasia. Ed è proprio nella religione romana che troviamo Terminus, la divinità protettrice dei confini; quando sul Campidoglio, come riporta Ovidio (Fasti, II, 667-670), fu eretto il tempio di Giove Ottimo Massimo, tutte le divinità che prima erano venerate sul colle fuggirono, lasciando il posto a Giove: tutte tranne Terminus («Terminus, ut veteres memorant, invictus in aede/Restitit et magno cum Iove templa tenet»).
Questa divinità era rappresentata da cippi di pietra che segnavano il confine, e chiunque, ad esempio nell’arare un campo, avesse spostato o fatto cadere questi cippi era maledetto, tanto che qualsiasi persona era autorizzata ad ucciderlo. La pietra che simboleggiava Terminus era collocata nella cella centrale del tempio capitolino di Giove, perché essa era allo stesso tempo un’immagine dell’Axis Mundi, la Colonna cosmica che secondo una dottrina universale separa e al contempo unisce il Cielo e la Terra, e da cui dipende in definitiva l’ordine e l’esistenza stessa dell’universo.
Rimuovere i confini, che sono il riflesso nell’ambito corporeo di questo Confine universale e pneumatico, significa far precipitare il mondo nel disordine, nel caos dell’indifferenziato; poiché in fondo è grazie a questo limite, a questa linea di demarcazione, che gli esseri e le cose esistono: il confine distingue la luce dall’ombra, il cielo dalla terra, il maschile dal femminile.
L’uomo stesso, come insegna l’esoterismo islamico, è la «barriera» (barzaḫ) che separa l’universo dal Vero, il finito dall’Infinito, poiché, come dice Dante, “l’uomo solo fra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili; perciò i filosofi lo paragonano giustamente all’orizzonte, che è a mezzo tra i due emisferi (De Monarchia, III, 16, 3)”.