Davide D’Alessandro nel suo ultimo libro (Sipario italiano, Mimesis, p.260) offre un quadro elaborato e vivace dei caratteri di molti artisti e pensatori. Tra libri e autori recensiti, letti per delizia o curiosità, si snodano percorsi che da Sartre a Simenon, da Lacan a Fenoglio fino a Battiato, talvolta si intersecano ma sempre ci rimandano a qualcosa di intimamente inesplorato. Perché, come recita la quarta di copertina, «basta un Canto di Dante, un pensiero di Emil Cioran, una recita di Carmelo Bene, un’intuizione di Sigmund Freud, un libro di Emanuele Severino, una poesia di Umberto Saba, un romanzo di Cesare Pavese, un racconto su Napoleone e il cielo si rischiara, l’uomo riprende il cammino verso qualcosa che lo libera ed eleva». 

Quello che segue è il brano su un genio assoluto, non solo del teatro, come Carmelo Bene.

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Freud? “L’ha sepolto Lacan”. Albertazzi? “Albertazzi non stecca. È la stecca”. Dio? “Non puoi chiedere a Dio di Dio”. Questo e tanto altro ancora era ed è Carmelo Bene, Bene Bravo Bis, il pagliaccio sommo e consapevole tra tanti pagliacci piccoli e inconsapevoli, divoratore della vita e di sé stesso, dissacratore di ogni sacralità fasulla, abbattitore di tutte le convenzioni, annientatore di clown improvvisati, maschera sublime di ogni maschera. Non ho mai pensato che interpretasse i personaggi di Shakespeare. Era Bene anche quando gli si chiedeva Amleto, Otello o Riccardo III, era Bene anche quando altri avrebbero messo a tacere, in ossequio al protagonista dell’opera, il proprio estro, talento, genio. Guai, per la verità, a parlargli di estro e talento. Ammetteva e contemplava soltanto il genio: “Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”. Si apre così l’Autografia d’un ritratto, posto da Bompiani all’inizio del volume “Opere”. Quando fu pubblicato, nel 1995, se lo rigirava tra le mani e, tutto divertito, esclamava: “Ormai sono un Classico. Da oggi chiamatemi Classico”.

A chi può venire in mente di dire: “Con le mie ceneri, dopo la cremazione, fateci una torta se proprio volete”? A lui, soltanto a lui. Ora, a vent’anni dalla morte, lo ricordano tutti, soprattutto quelli che l’hanno colpevolmente dimenticato. Non era nato per il palco[1]scenico, era il palcoscenico. E il modo in cui ti rubava l’applauso non è stato ancora superato. Rubava perché era un maestro del rubare, del cogliere il dettaglio dove i comuni mortali non arrivano a vedere, lavorava sulle parole, sulla parola, la smontava, la decostruiva e ricostruiva per porgertela con la voce di Dio, nel senso di una voce che non avevi mai udito e, se non l’avevi mai udita, non poteva essere che di Dio. Con Bene, del resto, eri sempre al riparo dalla blasfemia, poiché il suo gesto la inglobava e gli perdonavi anche ciò che ad alcun altro non sarebbe stato perdonato.

Diceva di essere apparso alla Madonna, titolo anch’esso rubato al mitico Ruggero Orlando, che la pronunciò dopo una colossale sbornia, ma Lorenzaccio e Pinocchio dicono di lui quanto pochi critici hanno saputo dire, presi, troppo presi, dal personaggio che avevano davanti senza poter ricavare l’essenza di una trasmissione di sapere. Vestiva la giubba e recitava mentre, preso dal delirio, sapeva quel che diceva e quel che faceva. Nostra Signora dei Turchi, prima romanzo poi film, è il suo capolavoro. Dentro c’è la solitudine dell’artista, la libertà che arde, la morte dalla quale “nullu homo vivente po’ skappare”.

Neppure a Bene, non essendo Dio, è stata consentita la fuga. Ha detto: “Fossi stato il miliardario Schopenhauer, non avrei certo scritto Il mondo come volontà e rappresentazione. Me ne sarei ben guardato: non si nasce per lavorare, spiegarsi, pensare; non si nasce nemmeno a de-pensare, perché anche questo è occuparsi del pensiero. Non si nasce a gestire, all’agire-patire: ci è tutto inflitto dalle circostanze”.

Ecco chi è stato Carmelo Bene: un grande dis-occupato. Il più grande

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