È in distribuzione il nuovo numero della rivista Arthos che continua la sua battaglia culturale a favore della Tradizione –  ma che questa volta coincide con la scomparsa di Renato Del Ponte, suo fondatore e direttore. Un volume denso di saggi e articoli (quasi trecento pagine)  e di cui, qui di seguito, riproduco integralmente lo scritto di Luca Fumagalli dedicato a Robert Hugh Benson.

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Lo scrittore che contemplava l’Apocalisse

La comparsa sulle colonne del British Weekly di una scritta a caratteri cubitali come “NO MORE HUGH BENSON!” basterebbe da sola a far intuire l’importante e scomodo ruolo che mons. Robert Hugh Benson ricoprì nell’alveo della letteratura britannica d’inizio Novecento, distinguendosi in particolare quale alfiere di una narrativa d’impronta cattolica, finemente apologetica.

Nel settembre del 1903 la notizia della sua conversione alla Chiesa di Roma sconvolse l’opinione pubblica, “essendo la più destabilizzante, per quanto concerne l’impatto sulla gerarchia anglicana e sulla cultura generale, da quella di Newman, avvenuta quasi sessant’anni prima”. Benson, infatti, non era un semplice prelato anglicano, ma il figlio dell’ex arcivescovo di Canterbury, il primate della Chiesa nazionale. Mai prima di allora un uomo che poteva vantare legami così importanti con le alte sfere protestanti aveva abbandonato ogni comodità e privilegio per farsi cattolico. Per di più l’evento parve confermare il progressivo indebolimento dell’anglicanesimo, incalzato dalla secolarizzazione e azzoppato non solo dalle diatribe interne, ma pure dalle storture prodotte da un legame troppo stretto tra potere temporale e spirituale, che vedeva sovente il parlamento nazionale o i tribunali locali intervenire a gamba tesa negli affari religiosi. Per molti intellettuali britannici il cattolicesimo divenne allora una sorte di oasi felice, una torre davidica la quale, in virtù della sua compattezza dottrinale e della guida certa e sicura del Papa, poteva costituire una valida alternativa allo scetticismo dilagante. Tra l’altro, la Chiesa aveva ripreso regolarmente la sua missione in Inghilterra soltanto da poco, da quando nel 1850 Pio IX con il breve Universalis Ecclesiae aveva ristabilito la gerarchia, soppressa sin dai tempi della Riforma, ricostituendo le diocesi e abbandonando definitivamente il sistema dei vicari apostolici.

Per Benson la decisione di passare dalla parte dei “papisti” – il termine con cui gli inglesi chiamavano spregiativamente i cattolici – non fu affatto facile, anzi, venne presa solo a seguito di una meditazione lunga e sofferta, ampiamente descritta dai vari studiosi che, nel corso del tempo, ne hanno tracciato la parabola biografica.

Classe 1871, dopo gli studi superiori a Eton e la laurea ottenuta a Cambridge, Benson fu convinto dal padre, Edward White, a prendere gli ordini anglicani. Se, almeno all’inizio, lo zelo apostolico lo tenne lontano dai numerosi dubbi che già all’epoca ne tormentavano la coscienza, con l’improvvisa scomparsa del genitore crebbe vieppiù il disagio nei confronti di una realtà ecclesiastica frammentata e dalla vocazione tutt’altro che universale. A tal proposito Evelyn Waugh, uno dei suoi estimatori d’eccezione, scrisse: “Superficialmente era un esteta, ma la Chiesa cattolica lo stuzzicò poco dal punto di vista estetico […]. Quello che lui cercò e trovò nella Chiesa era l’autorità e la cattolicità”. Decise così di abbandonare tutto e di rinunciare alla sicura carriera che gli avrebbero garantito le importanti amicizie familiari. Fortunatamente il disappunto dei parenti e degli amici si stemperò nel giro di qualche tempo; gli rimasero ostili solo gli ambienti più bellicosi del protestantesimo, che continuarono ad accusarlo di aver tradito la memoria paterna. Studiò quindi in seminario a Roma, dove venne ordinato sacerdote nel 1904, e, una volta rientrato in patria, trascorse un breve periodo a Cambridge – allevando una nidiata di promettenti scrittori cattolici, i cosiddetti “Bensonians” – per poi ritirarsi presso l’abitazione di Hare Street, poco a nord di Londra.

Instancabile predicatore e conferenziere, intraprese diversi viaggi nel continente e in America. Ogni volta le sale erano gremite e le persone erano disposte anche a pagare il prezzo del biglietto d’ingresso pur di assistere ai suoi brillanti sermoni. Davanti alla folla, per nulla intimorito, Benson subiva una strana metamorfosi: la timidezza e la balbuzie scomparivano per lasciare spazio al fervore di un’anima sinceramente innamorata di Cristo. Le parole, che all’inizio fluivano lente, acquistavano improvvisamente vigore, stregando l’uditorio. Persino gli anglicani ammiravano la sua straordinaria eloquenza, e c’era chi a mezza voce si lamentava della mancanza di predicatori con pari qualità tra i ministri della Chiesa nazionale.

La crescente notorietà valse a Benson il grado onorifico di ciambellano papale e il titolo di monsignore. L’episodio, che è testimonianza della stima di Papa Pio X, non cambiò nulla delle sue abitudini che, anzi, negli ultimi anni di vita divennero sempre meno vincolanti.

Sebbene non volle mai essere nominato parroco, fu direttore spirituale di numerosi convertiti e ciò, oltre a richiedere grande flessibilità, esigeva un impegno non indifferente.

Al netto di un’educazione teologica frammentaria – “istruito velocemente e ordinato velocemente, non ebbe l’opportunità di acquisire tutto l’equipaggiamento cattolico necessario” – e di una curiosità per l’occulto poco ortodossa, Benson associava allo studio dei più complessi problemi spirituali il gusto per la semplicità della preghiera e della celebrazione eucaristica.

Nella sua corposa bibliografia figurano diversi opuscoli a tema religioso, costruiti spesso come una risposta alle principali accuse rivolte dai protestanti alla Chiesa di Roma. Approntò anche alcuni volumetti appositamente dedicati alla catechesi dei più piccoli in cui presentare, nell’affascinante collaborazione tra poesia e arte, i principali articoli della Fede.

Ma se ancora oggi il suo nome è noto ai cattolici di tutto il mondo, lo si deve soprattutto alle indubbie qualità di romanziere. La passione per i libri era nata nell’infanzia, a stretto contatto con il raffinato ambiente domestico; pure i suoi due fratelli, Arthur Christopher ed Edward Frederic, acquisirono una certa fama come autori, mentre la sorella Margaret divenne una rinomata egittologa. Benson iniziò a scrivere poesie e articoli sin dai tempi dell’università, ma fu solamente nel 1903, con la pubblicazione del suo primo volume, che l’attività di scrittore iniziò ad affiancarsi sempre più stabilmente a quella di sacerdote. Intenzionato a piegare lo strumento letterario alle esigenze apologetiche, non concepiva la narrativa se non in stretta simbiosi con l’azione missionaria: il suo intento era quello di donare “una prospettiva cattolica in forma di racconto, finalizzata a contrastare alcuni degli orribili stereotipi anticattolici presenti nei romanzi popolari dei suoi giorni; ma soprattutto […] scriveva per “esplorare” il concetto di vocazione, la chiamata di ciascuno nell’esistenza”. Del resto il romanzo era un mezzo divulgativo singolarmente efficace in anni in cui la cultura iniziava, seppur timidamente, a trasformarsi in un fenomeno di massa.

Sempre a corto di soldi per finanziare i diversi progetti che gli suggeriva una mente in costante ebollizione, Benson scriveva a ritmi serratissimi, riposandosi solo dopo aver terminato il libro a cui stava lavorando. Preda di un vero e proprio furore creativo, usciva dalla sua stanza esclusivamente per i pasti o per una breve passeggiata, quando le idee cominciavano a latitare. Un tale stato di cose finì alla lunga per minarne la salute. Ciò spiega la morte prematura, avvenuta nel 1914, poco prima di compiere quarantatré anni. L’esempio di Benson, a cui va il merito di essere stato tra i primi a infrangere con la fama ottenuta quella marginalità culturale a cui il cattolicesimo inglese sembrava inevitabilmente destinato solo qualche decennio prima, spianò la strada a brillanti autori, alcuni dei quali, come Hilaire Belloc, Ronald Knox, Maurice Baring e Hugh Ross Williamson, rivelano un profondo debito nei suoi confronti. Il monsignore rivestì pure un ruolo decisivo per lo sviluppo spirituale e intellettuale di Maisie Ward, di Jacques e Raissa Maritain e del teologo Teilhard de Chardin; fu inoltre letto e apprezzato dallo storico Christopher Dawson e da Scott Fitzgerald. Ciononostante la produzione di Benson, dotato di un talento non comune, si scontrò con evidenti limiti: se la sua breve carriera letteraria fu singolarmente feconda, il risultato fu ottenuto a scapito della qualità dei testi, alcuni dei quali contraddistinti da uno stile compositivo troppo frenetico e istintivo. In questi casi diversi errori e piccole incoerenze minano trame piuttosto somiglianti, suscitando nel lettore la fastidiosa impressione di una costante variazione peggiorativa del medesimo canovaccio. A ciò va aggiunto il carattere spigoloso del monsignore, che contribuì a renderlo inviso a tanti. Già il gesuita Martindale “non si azzardò a spiegare come Benson rimaneggiasse costantemente le sue memorie drammatizzandole; ma suggerì in che misura questi divenne completamente isterico verso la fine della propria vita e credeva che nessun genere letterario fosse al di là delle sue possibilità”. Anche secondo Edward Frederic, il fratello circondava se stesso con l’aura della propria unicità, un atteggiamento che, accanto alla petulanza, si acuì dopo la conversione. Questo non riuscì però a ostacolare il grande successo di pubblico che rese Benson uno degli autori più stimati della sua epoca. In poco più di un decennio “scrisse venti volumi tra romanzi e raccolte di racconti, quattro lavori teatrali, un libro di poesie, e un numero sterminato di articoli e saggi di teologia e apologetica”.

Tra i suoi romanzi migliori, oltre a quelli ambientati nel XVI e nel XVII secolo, un posto di riguardo lo occupa Il Padrone del mondo (The Lord of the World), una sorta di distopia dal sapore “parabolico” apprezzata sia dal “Papa emerito” Benedetto XVI che da Francesco. Il libro è ormai diventato un classico della letteratura cristiana e non si contano le edizioni e le traduzioni che si sono susseguite a partire dal 1907, l’anno in cui la casa editrice Sir Isaac Pitman & Sons lo pubblicò per la prima volta. Con una breve Prefazione Benson introduce immediatamente il lettore nel mondo cupo de Il Padrone del mondo: “Questo libro produrrà senz’altro sensazioni di sconforto e sarà (per ciò e per altri motivi) oggetto di ogni tipo di critica; ma mi è sembrato che il mezzo migliore per esprimere valori e principi che mi stanno a cuore e che io credo veri e infallibili fosse quello di tradurli in avvenimenti che possono commuovere”.

Alla fine del XX secolo l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale. La vittoria del socialismo, l’eliminazione della guerra, la legalizzazione dell’eutanasia, l’adozione di cibi artificiali e l’uso dell’esperanto quale lingua internazionale sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano la nuova realtà. Con il trionfo dell’umanitarismo laico le religioni sono ormai quasi completamente scomparse. Il cristianesimo ha ritrovato la sua unità nel cattolicesimo, ma l’eresia modernista e il complesso di inferiorità rispetto alla cultura dominante – alimentato da alcuni intellettuali – hanno dato il via a un’apostasia di massa che ha ridotto gravemente il numero dei fedeli. Inoltre il Papa, pur avendo riacquistato il controllo della città di Roma, da cui è bandita ogni tecnologia, è isolato sul piano internazionale. I due protagonisti del romanzo non potrebbero essere più diversi: Julian Felsenburgh, socialista e massone dall’oscuro passato, governa l’intero Occidente grazie alle brillanti doti di oratore e alla personalità magnetica, mentre Percy Franklin, le cui fattezze sono modellate su quelle di Pio X, è uno degli ultimi sacerdoti rimasti fedeli alla Chiesa, recentemente colpito dalla defezione di tanti confratelli, tra cui l’amico Francis. Il terzo polo narrativo è costituito dai coniugi Mabel e Oliver Brand, militanti politici e accaniti sostenitori del progresso; con le prime persecuzioni dei cristiani, però, Mabel cade preda di una disillusione crescente e, stanca di una vita che appare senza senso, opta infine per il suicidio assistito. Quando vengono scoperti i piani per un attentato ordito dai cattolici in occasione della celebrazione delle nuove festività laiche, Felsenburgh getta la maschera e decide di distruggere Roma. Tocca a Percy – “il cui nome potrebbe essere inteso come una forma breve di “Percival”, […] il leggendario e visionario protagonista della ricerca del Santo Graal” – nel frattempo eletto Papa, affrontare una situazione apparentemente senza scampo: il misterioso politico è infatti l’Anticristo profetizzato dalle Scritture.

 Nonostante la pubblicazione risalga a oltre un secolo fa, Il Padrone del mondo, graffiante satira del secolarismo dell’Inghilterra edoardiana, continua ad essere uno strumento utilissimo per decifrare il presente. Il legame con l’oggi emerge nel momento in cui l’autore individua come male della modernità non tanto le ideologie storiche – nel testo il socialismo passa rapidamente in secondo piano – quanto l’umanitarismo, una sorta di religione spuria, senza Dio, che fa appello a istanze tipiche del cattolicesimo per svuotarle dall’interno, pervertendole nel significato: come la tolleranza religiosa si tramuta in laicismo, anche la carità diventa una solidarietà generica e senz’anima. È un sovvertimento progressivo, lento e silenzioso, teso a ridurre tutto a un livello meramente umano (“l’umanitarismo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sta per divenire esso stesso una religione, una religione però antisoprannaturale: è panteismo. Sotto l’influenza della massoneria sta perfezionando il suo rituale e ha anch’esso un suo credo: l’uomo è Dio”). Ben presto pure la patina pacifista si sgretola per lasciare posto all’intolleranza e alla violenza.

L’essenza dell’umanitarismo, il nuovo pensiero unico dominante, è la sostituzione di Cristo con l’uomo. È lo stesso orribile sofisma che è a fondamento del grande rifiuto di Satana e del peccato d’Adamo. Il “Non servirò” del demonio è il motto dell’universo immaginato da Benson. Come ricorda il filosofo Augusto Del Noce, che ebbe a lodare la forza profetica del romanzo, “la secolarizzazione cerca la propria giustificazione ultima nel porsi come strumento, unico strumento, di liberazione e di emancipazione umana da ogni forma di alienazione e di servitù”.

Anche il riferimento alla massoneria, un’istituzione iniziatica sorta nell’Inghilterra del XVIII secolo, si inserisce nel medesimo solco. Il mondo tracciato dallo scrittore obbedisce alla logica agnostica della filosofia massonica per cui l’inconoscibilità del divino apre le porte al relativismo morale. Il nuovo e corrotto umanesimo è quindi l’esaltazione luciferina dell’egoismo, dell’elevazione dell’uomo a re e giudice di se stesso. Tale ribaltamento valoriale è esemplificato in uno dei brani più inquietanti del libro, in occasione di un drammatico incidente: “Prima di rendersi ragione dell’accaduto, Mabel si sentì spinta in avanti come da una pressione violenta, finché, tremando dalla testa ai piedi, venne a imbattersi in qualche cosa di simile al corpo sfracellato di un uomo che mandava gemiti, disteso ai suoi piedi. Nel linguaggio articolato che veniva da quel corpo, udì pronunciare ben distintamente i nomi di Gesù e di Maria, poi una voce sussurrarle improvvisamente: “Mi lasci passare, signora, sono un prete”. Restò un momento ancora, stordita da quell’avvenimento imprevisto, e vide, pur senza capirne il motivo, quel giovane prete dai capelli bianchi inginocchiato estrarre un crocifisso dalla veste aperta sul davanti, chinarsi e fare velocemente un segno con la mano: dopo di che, udì un mormorio sommesso in un linguaggio sconosciuto. Quindi il prete si alzò con il crocifisso in mano e si mise a spostarsi sul pavimento insanguinato da questa o da quella parte come a un cenno ricevuto. Nel frattempo, dalla scalinata del grande ospedale a destra, calarono alcuni figuri a capo scoperto, tenendo ciascuno una specie di vecchio mantice da fotografie. Mabel fu rincuorata nel riconoscere in quelli i ministri dell’eutanasia”.

La massoneria detiene il ruolo di fucina delle idee, una sorta di contro-Chiesa il cui compito è quello di spargere i germi della rivoluzione anticristiana. Dietro il suo aspetto innocuo si nasconde il lato oscuro di una malattia spirituale che contamina il globo. La pace universale non è quindi l’esito della cristianizzazione, ma il frutto di un’obnubilazione collettiva, di un diffuso disinteresse verso qualsiasi ricerca di senso e significa[1]to; quando Mabel si confronta seriamente con le aspirazioni del suo cuore, scopre un vuoto così incolmabile

da spingerla a togliersi la vita: “Dio! Io son certa che non sei lassù! Non sei in alcun luogo! Ma se ci fossi, oh! Saprei bene cosa vorrei dirti! Ti direi quanto sono grandi la mia angoscia e la mia amarezza! Ma no… non occorrerebbe, perché lo vedresti da solo! Ti direi allora che tutto quello che faccio lo detesto con tutta l’anima! Ma tu vedresti anche questo, senza che te lo dicessi! Oh Dio! Che dirti allora? Ah! Ti direi di vegliare sul mio Oliver e sui tuoi poveri cristiani. Oh, quante terribili prove dovranno affrontare! E tu, mio Dio, mi comprenderesti? Mi ascolteresti? […] Coraggio! Addio! Addio a tutto!”.

L’annientamento di ogni residuo di umanità anticipa di poco la distruzione della terra. La venuta di Cristo, al contrario di quella di Julian Felsenburgh – il cui nome, un rimando all’Apostata, imperatore romano del IV secolo, fa il paio con la sinistra ambiguità del cognome – provoca una profonda frattura tra uomo e mondo: “Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada” (Mt. 10, 34-38). Una separazione che, se da una parte genera il dramma, dall’altra restituisce sapore alla vita, fatta di quegli imprevisti che avvicinano alla consapevolezza di dipendere da altro. Al contrario, nel libro si assiste alla negazione di sé e dei propri desideri con il risultato che i protagonisti diventano rarefatti, fantasmi senza più direzione.

Il Padrone del mondo, l’appellativo biblico dell’Anticristo, è un titolo così evocativo da assommare in sé il senso dell’intera opera narrativa di Benson, tanto dei suoi romanzi storici quanto di quelli d’ambientazione moderna. Felsenburgh rappresenta al massimo grado la tentazione del male e dell’autocompiacimento tipica di un’anima ferita dal peccato originale, la stessa tentazione che fu dei sovrani inglesi ai tempi della Riforma o degli uomini e delle donne dell’Inghilterra edoardiana. Naturalmente vi è anche tanto della biografia del monsignore, ed ecco perché per Luigi Negri “Il Padrone del mondo è una grande opera letteraria, ma soprattutto è una grande testimonianza di vita”. In egual misura il romanzo nasconde dietro i colori della finzione narrativa una cristallina fotografia sia del XX che del XXI secolo. La nuova religione, con feste e riti codificati celebrati da sacerdoti apostati, come tante mode contemporanee è un pallido tentativo di corrispondere alle aspirazioni spirituali dell’umanità. La prospera società del racconto, al pari di quanto scritto nel libro del profeta Daniele – a cui Il Padrone del mondo ammicca in più punti – “sarà la desolazione dell’abominazione” (Daniele 9, 27).

Quando fa la sua comparsa l’affascinante politico, si è toccato il fondo della malvagità. Alimentato dai peccati delle nazioni, l’Anticristo può finalmente incarnarsi per condurre l’attacco finale al cristianesimo. Con sarcastica inversione, tutti lo acclamano come il salvatore e qualcuno già lo considera un dio, il “Dominus et Deus noster”. Qualcosa di simile accade pure nel romanzo Il racconto dell’Anticristo, in cui Vladimir Solov’ev, qualche anno prima di Benson, aveva a sua volta delineato la figura di un imperatore solo in apparenza benevolo, ma in realtà diabolico. L’unica residua opposizione è costituita da Percy Franklin, nascosto a Nazareth con i pochi cattolici sopravvissuti alle persecuzioni, dove tutta la storia della Salvezza ha avuto inizio. Felsenburgh organizza allora un piano d’attacco per annientare i pochi superstiti; ma, esattamente come per Cristo agonizzante sulla croce, anche per la Chiesa il momento della sconfitta coincide con la più grande vittoria. Il male non può trionfare, e mentre le bombe sganciate dagli aerei radono al suolo il piccolo villaggio della Galilea, si compie ciò che era stato profetizzato: giunge la fine del mondo, la seconda venuta di Dio, la Vita eterna per tutti coloro che hanno sofferto in Suo Nome. Alla fine, per davvero, le porte dell’inferno non hanno prevalso. A seguito della pubblicazione de Il Padrone del mondo, come previsto da Benson alcuni lettori ne lamentarono le tinte eccessivamente fosche. A mo’ di “compensazione”, il monsignore decise allora di dare alle stampe nel 1911, per la Hutchinson, un altro testo futuristico, L’alba di tutto (The Dawn of All), speculare al precedente, concepito come un provocatorio inveramento di tutto ciò che la società edoardiana professava di odiare.

Nel romanzo, in cui, come ne Il Padrone del mondo, “trova espressione un viscerale anti- modernismo”, l’autore, stando a Belloc, “immagina il pieno ripristino della cattolicità, la nostra civiltà ristabilita, rinvigorita, ancora una volta seduta, vestita e sana di mente. Perché in quella nuova cultura, anche se piena di imperfezione umana, la Chiesa avrà recuperato il ruolo di guida degli uomini e ispirerà ancora lo spirito della società con proporzione e bellezza”. Tuttavia, al netto del piglio suggestivo, L’alba di tutto risulta nel complesso un prodotto mediocre, con una trama che per lunghi tratti dà la fastidiosa impressione di scomparire sotto il peso di dissertazioni teologiche spesso esorbitanti.

Tornando a Il Padrone del mondo, innanzi alla sua forza evocativa – così come alla provocatoria bellezza di altri romanzi bensoniani – viene spontaneo porsi una domanda, la stessa che il carmelitano Brocard Sewell, appassionato studioso di letteratura, rivolgeva retoricamente agli amici: “Quando ci sarà un revival di R. H. Benson, questo è ciò che mi piacerebbe sapere”.

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