Enrico Corradini (1865-1931) fu l’esponente più noto di quel nazionalismo che si pose, sin dagli albori, come elemento di rottura nei confronti dell’establishment e coscienza integrale di tutte le forze anti-giolittiane.

In più occasioni, aveva dichiarato che le teorizzazioni si fossero strutturate nel tempo ma tuttavia già per larghi tratti evidenti nel Marzocco. In effetti, basta rileggere «Abba Carima» (8 Marzo 1896), articolo uscito non firmato, appena dopo la sconfitta di Adua, per trarne le originarie correlazioni: «In un momento in cui ci sembrava che i nostri spiriti più si fossero chiusi in sé stessi, noi giovani che tante cose credevamo aver obliate, che tanto dubbio opprimeva, o tanto ardire di individuali aspirazioni, comunicammo ad un tratto con l’anima del Paese violentemente. Dalla notizia della prima strage sino all’ultima fu una continua rivelazione di nuovi esseri in noi; trepidanti, ansiosi, seguivamo col pensiero i nostri soldati che partivano, che varcavano il mare».

La casa editrice Altaforte, per la collana «Gli Indelebili», ha di recente dato alle stampe L’unità e la potenza delle nazioni (uscito la prima volta nel 1922) dove viene esposta in maniera organica la dottrina e indagati i singoli punti. Il volume è corredato da un saggio introduttivo di Corrado Soldato e dalla postfazione di Valerio Benedetti che riporto integralmente di seguito.

 

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È trascorso poco più di un secolo dalla prima pubblicazione dell’opus magnum di Enrico Corradini, L’unità e la potenza delle nazioni. Rileggerlo oggi produce un effetto straniante. Perché cent’anni fa era noto più o meno a tutti come funziona la geopolitica, e scriverlo chiaro e tondo non destava scandalo alcuno. Nell’Italia odierna, a spiegare che le relazioni internazionali si fondano sui rapporti di forza e la volontà di dominio, si viene tacciati come minimo di guerrafondai, se non peggio. Questo ci fa capire quanto la propaganda cosmopolita, irenistica e zuccherosa dei progressisti abbia permeato tutte le nostre società, plasmando anche l’opinione del cosiddetto uomo della strada. L’uscita dalla storia ha sempre un prezzo: noi italiani lo abbiamo pagato altissimo.

Corradini parlava a un’Italia che, sui campi di battaglia, aveva vinto una guerra mondiale, entrando finalmente nel novero delle grandi potenze, seppur in posizione defilata. Per il politico nazionalista, si trattava allora di educare e formare una nuova «aristocrazia del comando» da sostituire alla classe dirigente liberale. Cioè una classe vecchia, inetta, esangue, non all’altezza di guidare una nazione risorgente e infine risorta nell’agone della storia.

Oggi, invece, noi parliamo a un’Italia che, persa una guerra, subisce ancora le conseguenze di quella disfatta. Anche se ciò non è immediatamente visibile, infatti, la catastrofe bellica è l’evento destinale che ha scavato un solco profondissimo nella nostra memoria di popolo. È, in definitiva, l’evento che condiziona tirannicamente il nostro presente e il nostro avvenire, relegandoci in sempiterno a un ruolo da subalterni. Negarlo non sarebbe solo irrealistico e antistorico, ma anche sommamente sciocco.

In realtà, la geopolitica obbedisce a un’unica vera regola. Per conoscerla, è sufficiente leggere il Dante citato da Corradini: «Una gente impera e l’altra langue». Nella storia, nello scacchiere geopolitico mondiale, o si è re o si è pedoni. In certi casi, è vero, si possono raccogliere le briciole che cadono dal desco del padrone. Ma sempre garzoni e ancelle si rimane. Ogni altra spiegazione è sterile esercizio oratorio o pratica autoconsolatoria che rasenta l’onanismo.

Rileggere Corradini oggi è utile proprio per questo. Perché ci costringe a fare i conti con la realtà. A ricordarci quello che abbiamo sempre saputo, ma che abbiamo dimenticato. Innanzitutto, che l’identità nazionale è la dimensione decisiva del nostro essere-nel-mondo: quando la politica non è amministrazione di condominio, ma si allarga oltre i nostri confini, noi contiamo in quanto italiani, francesi, tedeschi, cinesi e via dicendo. Tutto il resto è fuffa, sovrastruttura, ornamento.

Scrive Corradini: «La nazione è una società naturale, istintiva. Non dipende da un atto di volontà e di libertà degli uomini; è condizione del loro vivere».  Si tratta di un’affermazione perentoria, nuda, forse eccessivamente cruda. La nazione non è solo questo: non è solo «la terra e i morti» di cui parlava Barrès, non vive solo nella dimensione del Blut und Boden, della schiatta che abita un territorio. La nazione non è solo genetica, storia e geografia. Non è, anzi non deve essere – come disse Giovanni Gentile – un «fatto bruto, che non può essere per l’individuo, conscio della libertà essenziale al suo essere di spirito, se non quella catena che esso deve spezzare per essere uomo per davvero e vivere la libera vita dello spirito».  Se veramente la nazione fosse un dato acquisito e inequivoco, infatti, oggi non osserveremmo sbigottiti l’oblio di sé in cui sono sprofondati i popoli europei, incluso il nostro. Perché la nazione è anche coscienza, etica, spirito, «plebiscito di tutti i giorni», come scrisse Ernest Renan.  È una realtà morale che vive in interiore homine.

Tuttavia, il bersaglio polemico di Corradini era un altro e sarebbe ingeneroso – se non proprio scorretto – attribuirgli una concezione materialistica della nazione, che pure caratterizzò certo nazionalismo ottocentesco. Il postulato corradiniano, in effetti, assume tutt’altro significato se lo leggiamo in controluce rispetto alla teologia cosmopolita oggi imperante e trionfante. La postmodernità, malattia senile dell’egualitarismo, mira a creare individui postnazionali che – ritornati nel ventre della natura, ritornati cioè «nuda vita» – sono ormai monadi senza radici, atomi senza nucleo, uomini senza predicati. A ben vedere, è proprio il cosmopolitismo odierno, e non certo il nazionalismo di matrice corradiniana, a proporre (e imporre) una concezione cattivamente naturalistica dell’uomo e del suo essere-nel-mondo.

Corradini, peraltro, sa cogliere perfettamente la genesi ideologica del pacifismo e dell’umanitarismo, ossia le dottrine che più di tutte avversano le idee nazionaliste. Per lui, ogni nazione in salute è geneticamente «imperialista», e cioè tende all’espansione e al dominio sulle altre genti. Quando l’egemonia è raggiunta, ecco però che le élite imperiali tendono a cristallizzare lo status quo facendo leva sul valore della pace e della fratellanza tra i popoli. «La negazione dell’imperialismo nasce dall’affermazione dell’imperialismo. Questa negazione dottrinale è una difesa di pratici e particolari imperialismi», scrive giustamente Corradini. Che poi spiega: «Gli imperi pervenuti al loro apogeo si difendono con il pacifismo e con la negazione dell’imperialismo dal sorgere e crescere di altri imperi concorrenti e rivali». Infatti, prosegue, «al loro apogeo gli imperi, per meglio difendersi e conservarsi, si trasfigurano in custodi ed esecutori di una legge morale», la quale si identifica, appunto, con il pacifismo e il cosmopolitismo.

Questa verità – oggi negata dai cantori della civilizzazione americana – viene esemplificata da Corradini facendo ricorso al caso dell’impero inglese, che diventa pacifista e umanitario nel momento in cui stabilisce la sua egemonia sul globo terracqueo. E lo stesso si può dire dell’impero statunitense, che si è proposto come supremo custode dell’«ordine internazionale» solo una volta che ha imposto il suo dominio incontrastato e – si suppone – incontrastabile. Questa previsione di Corradini sarà poi confermata da Carl Schmitt in un’opera immortale.

Non è un mistero che l’ideologia globalista, che mira a fondare una cosmopoli terrena, stia tentando da anni di disfarsi una volta per tutte degli Stati-nazione, incolpati di fomentare guerre, massacri e genocidi. Per realizzare questa pace perpetua di kantiana memoria, le élite progressiste usano come grimaldello istituzioni sovranazionali come l’Onu, il Fmi, l’Unione europea e così via. Tuttavia, liquidare comunità etnostoriche di consolidata tradizione si è rivelato più difficile del previsto, giacché non è affatto semplice cancellare identità secolari, se non millenarie, attraverso improbabili colpi di spugna. Anzi, quanto più si suonano le campane a morto per le nazioni, e tanto più esse mostrano segni di eccezionale vitalità.

Di fronte ai dissesti politici, sociali ed economici provocati dalla globalizzazione neoliberale – dove pochi sono i vincenti e innumerevoli gli sconfitti – non sono infatti mancate vigorose reazioni da parte di diversi popoli occidentali. Tanto che, negli ultimi anni, si è più volte parlato di un «ritorno del nazionalismo».  Ciò nonostante, questo «nazionalismo» che si pretende stia tornando non ha nulla a che vedere con quello di Corradini: si tratta perlopiù di teorie «debolistiche» di matrice conservatrice, che non vanno oltre una concezione puramente difensiva delle identità nazionali. Il che, beninteso, non è poco, soprattutto di questi tempi. Eppure, l’impressione è che si stia tentando solo di rinviare l’inevitabile attraverso palliativi di dubbia efficacia.

La debolezza principale di queste tesi, infatti, sta nella visione (antistorica) di nazioni pacifiche che, ognuna rinchiusa nel suo orticello, se ne vivono in tranquillità senza mai pestare i piedi ai vicini. E invece, come ci ricorda Corradini, questi bei quadretti idilliaci sono del tutto astratti. Perché la «specie», ammonisce il nazionalista italiano, è geneticamente portata ad affermare il proprio spirito vitale. Il che, in alcuni casi, può anche sfociare nel cozzo di nazioni le une contro le altre armate. E, ovviamente, le cose non cambierebbero neanche se ci fosse uno Stato mondiale: il conflitto verrebbe soltanto spostato, non certo risolto. La storia, teoricamente chiusa dall’ideologia globalista, resta praticamente ancora da chiudere.

Con la fine della guerra fredda, era convinzione diffusa che la storia fosse effettivamente finita. Caduto il comunismo sovietico, la marcia trionfale degli Stati Uniti non sembrava avere più ostacoli sul suo cammino. La democrazia liberale a stelle e strisce era ormai la meta non più trascendibile del genere umano. Tutti i popoli della Terra erano destinati, per amore o per forza, ad accedere a questo grande Eden post-storico. Nel 1992, poco dopo il collasso dell’Unione Sovietica, Francis Fukuyama lo annunciò in un libro che ha fatto epoca: la storia è finita, siamo entrati nel regno dell’ultimo uomo.

Senonché, come spesso accade, le cose sono andate molto diversamente. Il cosiddetto Occidente, cioè l’impero americano, si trova davanti a nuove sfide: gli sconvolgimenti socio-economici causati dalla (sua) globalizzazione, la crisi del liberalismo, la nascita di numerosi movimenti populisti, il ritorno della Russia, la prepotente ascesa della Cina. In sostanza, Fukuyama aveva torto. Molto più convincente si è rivelata la nota tesi di Samuel Huntington, che aveva previsto una nuova era di conflitti tra nazioni e civiltà.

Ecco, in questo contesto, la posizione dell’Italia è quantomai desolante: periferia dell’impero statunitense, siamo stato emarginati anche nell’Europa matrigna di Bruxelles. Eppure, benché pensato e scritto per un’Italia in ascesa, L’unità e la potenza delle nazioni parla anche a noi italiani del XXI secolo, che stiamo sempre più sprofondando nell’irrilevanza. Checché ne dicano i fautori di un governo mondiale garante della «pace perpetua», a contendersi l’egemonia globale ci sono sempre e comunque Stati nazionali, più o meno estesi, più o meno potenti. Anziché autocastrarsi e cedere al fatalismo, gli italiani dovrebbero finalmente convincersi che gli spazi di manovra – sebbene risicati – esistono. Tornare potenza è ancora possibile.

Per intraprendere questo percorso, occorrono soprattutto due cose: farla finita con l’autorazzismo, ossia con la propaganda confezionata dai nemici di dentro e di fuori; abbandonare l’economicismo e lo spirito bottegaio, mettendosi in testa che la potenza esige pesanti sacrifici e rinunce. La ruota della storia sta riprendendo a girare. Dobbiamo solo decidere se esserne protagonisti o spettatori. Se essere re o pedoni.

 

 

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