Gli universi letterari di Tolkien e Lovecraft sono stati quasi sempre utilizzati dalla critica come ambiti contrapposti in cui fosse impossibile tentare sconfinamenti e sondare affinità.

Il rigoroso filologo oxfordiano con una consolidata cultura accademica, che crea un mondo secondario per ritrovare tutti i valori in cui crede, non avrebbe nulla in comune col Sognatore di Providence, dotato di disordinata erudizione e talento innato, e che Stephen King definì il maggior professionista del racconto horror classico del XX secolo. Il fantasy, fiaba adulta con mille rimandi al sacro, col quale si abbozza una rappresentazione di tipo medievale-romantico, sarebbe tutt’altra cosa rispetto alle Dreamlands lovecraftiane che agiscono in uno scenario gotico e modulano una peculiare filosofia letteraria, il “cosmicismo”, che si edifica sull’insignificanza dell’uomo di fronte all’universo.

Un rapporto dicotomico che coinvolgerebbe il dato letterario ma anche le rispettive cosmogonie. Il Professore, sedotto dal paganesimo nordico, resta un cattolico che si muove nella nostra Terra, seppur in un periodo immaginario dove il mito – impregnato di cristianesimo – insiste come tratto distintivo. L’altro, invece, non confida in alcuna forma di provvidenza ultraterrrena e si rifugia nell’ignoto.

A tentare di disincagliarci dalle secche di questa contrapposizione quasi insanabile indugia lo studio comparato di Adriano Monti Buzzetti Colella (Tolkien e Lovecraft. Alle origini del fantastico, Historica Edizioni, p.150) che non è solo un tentativo di tirare fuori entrambi gli autori dai cliché del genere ma trovare punti di contatto significativi, ridefinendo una sorta di «distanza ravvicinata».

Ed ecco che le analogie non mancano, così come le assonanze artistiche ed estetiche, e significative invasioni di entrambi nei territori dell’altro. Gli innesti neo-gotici nella saga tolkieniana (lo Spettro dei Tumuli nella cui trappola cade Frodo, i sotterranei di Moira infestata di presenze malefiche, il ragno femmina Shelob che Frodo e Sam incrociano sul cammino verso il Monte Fato, e numerosi altri scorci spaventosi) sono, per esempio, ritratti degni di un consumato narratore del terrore quale Lovecraft. Allo stesso modo, una reiterata e tangibile sintonia fonetica come l’uso del termine undead, riferito ai Nazgûl, e la loro fiacchezza rispetto alla luce del giorno, che sembrerebbero, peraltro, un esplicito riferimento a Bram Stoker.

L’impalcatura invisibile che regge l’intera struttura sembra dunque incrociarsi in più punti, e soprattutto non lavorare su banali sillogismi o allegorie dal momento che l’obiettivo comune resta l’evasione dalla prigione della Realtà, in un caso attraverso il mito e nell’altro con l’irruzione dell’incubo.

Lo sforzo doloroso e amaro d’infrangere il quotidiano rivela la caparbietà di una ricerca di un senso più profondo di quello offerto dal mondo materiale che entrambi affidano allo strumento della fantasia. Scelta naturale per Tolkien perché essa «non distrugge e neppure offende la Ragione; non smussa neanche l’appetito per la verità scientifica, e nemmeno ne oscura la percezione. Al contrario, quanto più la ragione è acuta e chiara, tanto meglio opererà con la Fantasia». Ma inaspettatamente anche per Lovecraft, il quale nonostante si fosse definito un «assoluto materialista e meccanicista», in Supernatural Horror scrive: «non c’è razionalismo, riforma o analisi freudiana che possa eliminare del tutto il brivido provocato da un bisbiglio nell’angolo del focolare o in un bosco solitario».