Ezra Pound, nei Cantos, ha esplorato la sublime bellezza dello stile intrecciandola con straordinaria forza evocativa alle antinomie fondamentali del nostro tempo.

Intorno ai cinquant’anni, tuttavia, si dedica a qualcosa di inedito: un’opera saggistica, che in una lettera al suo ex-professore di letteratura, J.D. Ibbotson, descrive come «una storia universale di tutta la Kulchur umana, o qualcosa del genere». Un caleidoscopio di temi e argomenti che spazia dai Vangeli al romanzo ottocentesco, dai sussidiari scolastici al cibo, dal pacifismo alla musica («Nessuno, nel 1938, sa niente di Vivaldi. Pochi – meno di sei – studiosi hanno idee approssimativamente rispettabili delle sue composizioni»).

In realtà, Guida alla cultura, pubblicata ora dalle edizioni Medhelan (prefazione di Luca Gallesi, p.400) è un’opera imponente, realizzata in poco più di due mesi, tra febbraio e aprile del 1937. In essa, non solo emerge una prosa personale che, a un lettore poco attento, potrebbe apparire come una sequenza di audaci digressioni e percorsi non convenzionali, ma che rappresenta un tassello essenziale per cogliere appieno lo spirito e i numerosi passaggi dei Cantos.

Un viaggio attraverso 2500 anni di evoluzione culturale, con l’obiettivo disorientante di riflettere su «ciò che persiste dopo aver dimenticato tutto ciò che si è appreso». Ed è infatti in quel dubitativo finale: «… o qualcosa del genere», in cui si svela la temerarietà di un artista che plasma la sua analisi critica con un timbro personale intriso di irriverenza e creatività.

Sfida infatti l’accademismo, concependo la cultura non come sterile erudizione, ma insieme di principi guida per una vita virtuosa e dinamica. Conia il termine “Kulchur”, frutto di una crasi tra il vocabolo tedesco “Kultur” e la fonetica della parola inglese “culture”. Allo stesso modo, quasi con orgoglio e una certa vaghezza, descrive questa Guida come una sorta di sintesi tra un’autobiografia intellettuale e un «sussidiario di quinta elementare» destinato alla figlia Mary, con l’obiettivo di trasmetterle «le cose principali, cioè tutto: religione, storia, geografia, matematica, scienze e la vita dell’uomo».

Il volume si apre riprendendo un opuscolo pubblicato a Milano nel 1937 dall’editore Scheiwiller, contenente l’edizione curata da Pound di un Compendio degli Analecta confuciani. Nella lingua cinese, il pensiero intuitivo è agevolato dalle immagini evocative dell’ideogramma e Pound è profondamente influenzato dagli insegnamenti di Confucio, descritto come un uomo pratico, distaccato da una speculazione metafisica «che condiziona la lingua e la logica d’Occidente», e profondamente appassionato di poesia e musica. A differenza di filosofi come Aristotele (sul quale si accanisce per tutto il libro chiamandolo Arry Stotl) accusati di dedicare gran parte del loro tempo a discussioni sterili, considera la filosofia confuciana più pragmatica di quella greca poiché, a suo avviso, evita di sprecare energie nell’analisi degli errori.

Ciò su cui insiste è infatti l’importanza di una conoscenza integrale, simile a quella suggerita dall’ideogramma ed enfatizzata dal concetto di “Paideuma”, introdotto dall’antropologo tedesco Leo Frobenius per descrivere l’essenza culturale di una civiltà. Derivato dal Timeo di Platone, il termine indica sia l’anima di una civiltà che la sua influenza sugli individui, i quali sarebbero portatori di un “destino” modellato dalla cultura di appartenenza. Per Pound, è invece necessario scendere ancor più nell’essenziale, traducendo questo concetto nel «complesso di idee dominanti e germinali di un’epoca e di un popolo».

Le idee fondamentali continua di fatto ad intercettarle anche nei classici, opere senza tempo che ogni generazione deve consultare per scoprire cosa sia davvero necessario per una vita piena: «Non apro mai l’Odissea senza trovare nuove ricchezze poetiche, musicali, metriche».

È proprio su questo filo sottile che il saggio intreccia i Cantos, esortando il lettore a non rimanere spettatore passivo, ma a intraprendere un percorso di ricerca della vera conoscenza, in modo da preservare quei valori «per cui vale la pena di vivere».

 

                                         * * *

Il brano che segue è tratto dal paragrafo “L’Europa o lo scenario”.

La polvere sulle strade d’Italia, la formazione geografica o geologica della penisola, tutto vi dice di andare in automobile. Non tentate di camminare. Avrete abbastanza da marciare quando sarete nelle città. Avrete una concentrazione di tesori che avrà bisogno di tutti i muscoli dei vostri polpacci, di tutta la resistenza delle vostre caviglie. Perugia, la Galleria del Palazzo Pubblico, Bonfigli e compagni in una dozzina di chiese, Siena, analogamente la Galleria, da poco sistemata. Cortona, Fra’ Angelico, in sei o otto chiese.

Ravenna, i mosaici. Una galleria meno nota e tre chiese in Pisa, San Giorgio degli Schiavoni per Carpaccio, Santa Maria Miracoli, a Venezia, e pochi dipinti qua e là, un Giovan Bellin’ in Rimini, Crivelli a Bergamo, le pareti di Schifanoia (Ferrara), i ritratti dei Gonzaga e Mantegna a Mantova. Botticelli a Firenze e il Davanzati se ancora aperto, Firenze la più dannata delle città italiane, dove non c’è posto né per sedersi né per stare in piedi o per camminare. La più alta aristocrazia ha o ha avuto un solo circolo molto eminente, dove sembrerebbe che non ci fossero finestre. I conti e i marchesi sporgono dal portone principale, il più decrepito ha il privilegio della sedia di legno del portiere.

Davvero questa città ha espulso il suo più grande scrittore, e su di lei è scesa una maledizione di disagio, che è durata seicento anni. Non mancate il Bargello. Non mancate il Palazzo Pubblico a Siena.

Per il pesce, tentate Taormina, per la gloria dell’antica Grecia provate Siracusa, benché il marmo o la pietra bianca dei romani sia altrettanto buona di qualsiasi monumento ellenico.

Vicino come sono a un catalogo completo, tanto vale che lo finisca.

Qualche buona scultura egiziana nel British Museum (nessuna nel Louvre, benché ci sia un piccolo pezzo chiamato ritratto di Chak Mool o qualcosa di simile con qualcosa che somiglia a un’iscrizione cinese). Come sa anche il più frettoloso dei turisti ci sono, dipinti al Louvre, alla Galleria Nazionale (e, meno strombazzati, nelle Gallerie di ritratti di Parigi e di Londra), i primitivi italiani, a Londra, ai quali manca la loro luce natale. Se un qualsiasi uomo o giovane donna coglierà innanzi tutto questa occhiata, questo ideogramma di quel che c’è in Europa, non occorrerà che si spieghi loro troppo perché sia stata omessa qualche opera molto grande.

Goya, sì, Goya. Il migliore che conosca è a New York.