Gli esseri umani sono davvero una categoria a parte: complessi, contraddittori, spesso indecifrabili.
Non voglio cadere nella trappola della generalizzazione — per fortuna esistono ancora persone rette, sensibili, capaci di autentica empatia. Ma, diciamolo con onestà, non sono affatto poche le eccezioni negative che gettano ombre profonde sulla nostra capacità collettiva di esprimere bontà e impegnarci per il rispetto reciproco.
Capita sempre più spesso di incrociare un vicino sul pianerottolo e non ricevere nemmeno un cenno, uno sguardo, un semplice saluto. Invisibili gli uni agli altri, come ingranaggi stanchi di una quotidianità che ha perso il senso del legame umano più elementare.
Capita poi che qualcuno, con disinvoltura inquietante, scelga di non occuparsi dei propri genitori o familiari anziani, relegandoli in strutture che sembrano più centri di abbandono che luoghi di cura. Talvolta, lo fa non per reale necessità, ma per liberarsi del peso della responsabilità affettiva, come se l’amore potesse essere delegato.
Ma anche nei gesti più ordinari si annida una forma di cinismo: file saltate al supermercato (ma quello sarebbe il minimo), in ospedale, negli uffici pubblici. C’è chi si insinua davanti con l’aria di chi “conosce qualcuno”, sopravanzando tutti con un sorriso complice o un atteggiamento spavaldo. E mentre tu aspetti ore per assistere un parente malato o ricevere cure indispensabili, loro avanzano come se il tempo e la sofferenza degli altri valessero meno.
Oppure, più semplicemente, basta mettere piede fuori casa per accorgersi che quelle parole di “umanità” restano lettera morta, solo finzione. Nei contesti concreti — sul lavoro, nei rapporti umani, nella vita pubblica — molti di questi “paladini del bene e della giustizia” diventano freddi, indifferenti, a volte persino spietati. Avanzano come carri armati lungo la loro strada, incuranti di chi hanno davanti, troppo presi dal proprio cammino per fermarsi a guardare chi stanno travolgendo. Indifferenti all’ascolto e incapaci di dedicare mezzo minuto del loro tempo all’altro.
Nella vita di ogni giorno, ciò che manca sempre più è l’umanità. La gentilezza, il rispetto, la compassione sono valori che sembrano essersi dissolti. Nessuno ascolta davvero, nessuno osserva più con attenzione e com-passione chi ha di fronte. Siamo isole chiuse in un arcipelago che ha perso le sue connessioni.
Eppure — ed è questo il paradosso più amaro — le stesse persone che nella realtà si mostrano aride e distratte, si trasformano nel mondo virtuale. Pubblicano post colmi di empatia, reiterati, potenti, densi di significati morali in direzione dei popoli martoriati dalle guerre, esprimendo solidarietà per israeliani, palestinesi, iraniani, ucraini, russi, per i popoli del Burkina Faso, della Papua Nuova Guinea, e chiunque altro sia vittima di ingiustizie lontane. Parlano di pace, fratellanza, amore universale, solidarietà… appunto, solidarietà. Predicatori di una nuova umanità, tanto bella quanto falsa perché, non di rado, chi ostenta una postura così risoluta e combattiva, poi, nel privato, si mostra spesso incline alla furbizia e all’indifferenza verso ogni norma civile e principio di umanità, oltre che alla buona educazione.
Perché combattiamo con il coltello tra i denti per difendere le ragioni di chi vive a migliaia di chilometri di distanza o all’altro capo del mondo — una battaglia che, sia chiaro, considero sacrosanta, legittima e non reputo inutile — e allo stesso tempo abbiamo costruito una società così sfilacciata, individualista ed egoista da renderci indifferenti verso il prossimo che è a un solo centimetro dal nostro naso?
E allora viene da chiedersi: dove finisce l’ipocrisia e dove comincia la vera umanità? Forse questa empatia da tastiera è solo una maschera comoda, un modo per sentirsi buoni senza dover cambiare davvero nulla. Un’illusione di coscienza pulita che ci assolve?