Il Cinema visto da Flaiano. Riflessioni e Stroncature
Le sceneggiature di Ennio Flaiano per i film di Monicelli, Rossellini, Ferreri, Zampa, Antonioni e, soprattutto, Fellini sono un vero miracolo di intelligenza e armonia. Flaiano fu però anche un critico cinematografico di grande acume. Sapeva analizzare una trama senza filtri e, attraverso di essa, raccontare un’Italia che lasciava alle spalle le cicatrici del dopoguerra per entrare nel miracolo economico degli anni ’50.
Il suo sguardo acuto, sempre accompagnato da sarcasmo e pungenti allusioni, non concedeva nulla al superfluo: «Per anni ho scritto critiche sui giornali, senza cavarne altro che inimicizie ed errori tipografici».
Chiuso per noia, da poco pubblicato da Einaudi con la curatela di Anna Longoni, raccoglie le sue recensioni per giornali e riviste: ritratti personali e stroncature spietate che, però, mai scivolano nel moralismo. La raccolta comprende scritti dal periodo fascista al dopoguerra (1939-1948), quelli pubblicati su Il Mondo (1949-1951) e, nella parte finale (1967-1970), testi che uniscono rigore critico a riflessioni più personali, con un ricordo di Totò, una recensione di 2001: Odissea nello spazio e un’analisi sulla crisi del cinema.
La sua straordinaria capacità di raccontare i mutamenti dell’immaginario collettivo, insieme all’analisi della qualità del prodotto cinematografico, emerge anche nei dettagli più minuti. Una singola inquadratura, un dialogo incerto o una sceneggiatura appesantita da inutili barocchismi trovano sempre posto all’interno di pagine che sono veri capolavori di scrittura.
La recensione di Via col vento ne è un esempio: parte dalla stroncatura del romanzo con l’ironica confessione: «Noi apparteniamo a quei pochi fortunati che non hanno avuto occasione di leggere Via col vento e siamo certi, dopo aver visto il film che ne è stato fatto, che nessuna forza umana potrà obbligarci a leggerlo». L’opera viene quindi definita un pastrocchio, privo di «personaggi a tutto tondo» e popolato soltanto da «bassorilievi, spesso soltanto di profili». La stessa attenzione al dettaglio e al paradosso emerge anche nelle pagine dedicate alle bizzarre produzioni del genere “peplum”, che mescolavano senza logica mitologia greca, tradizione biblica e storia reale, fino a sfociare nella farsa, e che irride già nel titolo dell’articolo: Sansone alla riscossa.
Una versatilità da vero artigiano della scrittura che gli permise di eccellere in ogni ambito artistico: dalla letteratura – Premio Strega con Tempo di uccidere – al cinema e al giornalismo, arricchendo ogni contesto che entrava nel suo orizzonte creativo. Le sue opere, costantemente ripubblicate, insieme ad aforismi e calembour oggi rilanciati in modo ossessivo anche sui social, testimoniano la capacità di parlare a generazioni diverse, sempre con lo stesso rifiuto del virtuosismo sterile e dell’ampollosità.
Queste recensioni sono un concentrato di genio e di cinismo mai greve, che conferisce ai testi una leggerezza paradossale da aumentarne la forza espressiva. Stromboli è elogiato per l’equilibrio narrativo, «spietato nella sua semplicità, senza personaggi che chiedono la nostra simpatia». Mai compiacente né alla ricerca di facili colpi di scena, il film di Rossellini è apprezzato per l’asciuttezza e perché i luoghi non sono «contaminati di letteratura ed estetismo».
Negli anni del fascismo aveva infatti criticato il cinema finto e retorico, sempre pronto a privilegiare la dissimulazione sulla realtà. Al contempo, interpreta l’esplosione del neorealismo come una grande opportunità per «sgranchire le coscienze». Quando, però, la vena creativa del movimento si esaurisce, e viene un po’ alla volta assorbita dalle logiche del mercato, Flaiano intuisce il definitivo scivolamento verso il manierismo, da cui però riesce comunque a estrapolare qualche capolavoro. Le righe dedicate, per esempio, a Viale del tramonto, storia di una vecchia diva del cinema che non si rassegna all’oblio, sintetizzano le coordinate immutate della sua condotta: «Ciò che ammiriamo maggiormente nel film di Wilder è l’asprezza dell’azione, quel marciare verso la tragedia senza sfiorare il melodramma. Mai un tentativo di adattarsi al gusto corrente, al dolorismo, al sentimentalismo cinematografico».
La qualità dei film era però sempre più influenzata dai ricavi del botteghino. Flaiano ammette di essersi più volte addormentato al cinema e di aver notato come le prime pellicole violente provenienti da America e Francia («Sullo schermo non facevano che sparare… uccisioni a bruciapelo, furti, disastri ferroviari…») mirassero ormai furbescamente a consolare il pubblico che «cercava un po’ di inferno nel quotidiano purgatorio».
Pur campando grazie al cinema, e sebbene in alcuni casi riuscisse a sorprenderlo – come accadde con Monsieur Verdoux di Chaplin dove «tutto porta il marchio così semplice e raro del genio» – a prevalere è sempre il disincanto, che gli permette di dire la verità senza indulgenza, fino al punto da riservare al cinema un posto di second’ordine nel suo ideale canone artistico: «Nessun film potrà mai emozionarmi come una sonata di Bach, due versi di Leopardi o Catullo, o un ritratto di Tolstoj o Manzoni».
