La vicenda dei tre bambini della famiglia anglo-australiana, che vivevano in una casa nel bosco in provincia di Chieti e sono stati costretti a lasciare la loro abitazione per trasferirsi in una comunità educativa, dove resteranno con la madre per un periodo di osservazione, mi ha subito richiamato alla mente la storia di Christopher Johnson McCandless, il cui tragico percorso è stato raccontato nel film Into the Wild di Sean Penn. Le somiglianze sono evidenti, così come le differenze.

In ogni caso, ripropongo qui di seguito il capitolo che ho a lui dedicato nel volume Il cinema delle stanze vuote, scritto a quattro mani con Isabella Cesarini.

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E se per scardinare questa mestizia ricorrente si dovesse allontanare lo sguardo da Dio e dagli uomini? E se la soluzione fosse la fuga e le ragioni da ricercarsi dentro di noi?

Fuga non solo interiore, e pertanto al di là della soglia del razionale, ma fisica, come quella di Christopher Johnson McCandless, il puro idealista che precipita nell’utopia e in una progressiva derealizzazione dell’Io, la cui vicenda biografica fu adattata nella pellicola Into the wild di Sean Penn.

La cornice di questa storia è chiara sin dall’inizio. Christopher il giorno stesso della laurea conseguita con ottimi voti in Storia e Antropologia, pianifica una fuga. Ma non è uno sbandato, anche se in molti momenti gli si possa cucire addosso un siffatto vestito. Ha come nemico giurato il materialismo in tutte le sue declinazioni; quel Dio edonista e gaudente intorno al quale gravita la società americana e che dopo gli studi universitari lo avrebbe accolto a braccia aperte con un lavoro ben retribuito, un’esemplare carriera, una famiglia borghese e una casa confortevole.

Christopher vuole fuggire da una società e da una cerchia di conoscenti che non corrispondono più alle sue pretese morali. Sente il bisogno di inabissarsi nel mondo, decidendo di farlo – appunto – per sottrazione. Non opta per un’indagine sociologica su larga scala; non vuole raccontare una storia; non è neanche il cantore di una vita on the road persa tra bevute, derive orgiastiche e puro nichilismo; e dunque non vi è nulla di paragonabile al malessere generazionale e ultrapolitico dei ‘figli dei fiori’. Qui siamo di fronte a un gioco della vita, uguale e contrario a quelli più volte menzionati in questo libro, dove il grado di consistenza biografica lentamente si annichilisce.

Egli impone sin da subito un personale sigillo alla fuga, tant’è che una volta partito, i genitori non lo rivedranno più. Attraversa tanta parte di quell’America profonda per raggiungere le terre selvagge e incontaminate dell’Alaska; metafora perfetta per una catarsi con tutte le insolubili problematicità di una definizione stringente come questa, dove la purificazione è solitudine assoluta.

E le vicende familiari, l’infedeltà del padre e una madre succube del marito non possono essere le uniche cause scatenanti della fuga, come pure si è affrettata ad asserire certa critica. La decisione di adottare come nuovo nome Alexander Supertramp (tramp significa vagabondo) non è solo figlia del rifiuto di un nome. Oltre al ‘super vagabondo’, si agita in lui un’ambizione nuova. Sa che il passato lo ha marchiato e non può reciderlo con taglio netto, ma solo proiettarsi verso una sorta di eterno divenire da costruirsi per sottrazione. Lungo il percorso cerca di adattare (e adottare), quasi in maniera pirandelliana, le varie maschere impostegli dai contesti sociali e con cui viene in contatto, ma nel tentativo di sfuggire a ognuna di esse attraverso un itinerario vitalistico alle fonti della verità; e pertanto le consuma ancor prima di averle fatte totalmente proprie.

Sembra quasi sulle tracce di Schopenhauer quando proietta la soluzione di questo continuo ‘desiderare’ tipico della società americana nell’annullamento del sé che anela la catarsi. Nello sbarazzarsi passo dopo passo di tutta la zavorra materialistica si rintraccia quella sorta di nirvana che passa anche dalla castità, dalla liberazione degli oggetti fisici e dalla negazione del buon vivere; almeno del vivere la vita di tutti gli altri. E perciò annullare il materialismo e i desideri non per incrociare un vago trascendente ma per incontrare se stesso.

Ovvio che le rimarcate sottolineature del regista testimoniano una radicalità che veste volutamente i panni ideologici. Sean Penn era talmente affezionato al progetto da aver aspettato dieci anni per ottenere i diritti per la trasposizione filmica del libro, ma attinse molto, forse troppo, dal suo retroterra politico. Nelle settimane successive l’uscita nelle sale, fece il giro delle sette chiese per pubblicizzarlo e imporre un personale indirizzo interpretativo. E forse proprio taluni temi troppo vicini al suo radicalismo hanno fatto sì che non poche recensioni fossero distorte e quasi ridotte a un campo di battaglia in cui si menavano fendenti luddisti e neo modernisti.

Tuttavia, tolti gli appesantimenti retorici, resta la vicenda reale di questo ragazzo che snida l’altra faccia della luna, l’angolo buio del nostro mondo interiore; ciò che tiene ancora viva la fiammella della selvatichezza, dell’anarchia, oseremmo dire dalla poesia. Supertramp sfonda il muro rinsecchito delle banalità quotidiane. Attraverso sentieri inesplorati va alla ricerca di quella fiammella facendo appello al reale e perciò, in primo luogo, alla natura.

Per certi aspetti, è il contraltare de Lo Straniero di Camus. Quello sfugge e cerca nuove avventure; questi affoga nella noia, recitando un’appartenenza a un mondo che non gli appartiene e che pur subisce perché non è scosso da alcun fremito o sentimento; e tutto scorre in un’apatia segnata da una frase ricorrente («ma questo non significa nulla») ogni qualvolta fa ingresso sulla scena della vita qualche piccolo o grande imprevisto. Il viaggio di Christopher è invece ‘iniziatico’, alla maniera di von Trier, connotato però dall’elemento della sottrazione.

Il libro mostra quanto con lo scorrere del tempo egli consolidi certezze e abbandoni talune presunte verità; ma lo faccia avvolgendosi alla natura, quasi abbandonandosi ad essa, e immergendosi in una sorta di enorme e protettivo liquido amniotico.

Non a caso, nel suo Magic Bus, quella sorta di sgangherato pulmino e ultima dimora in cui fu ritrovato morto, nel parco del Denali, in Alaska, recuperarono libri di Tolstoj, Jack London e Henry David Thoreau. Strumenti di percezione per una realtà ‘altra’ che tendenzialmente unificava contorni tra mondo esteriore e interiore ma sempre gravitanti intorno alla reciproca collocazione tra il carattere figurativo dell’esistente e l’Io. Libri annotati, e perciò vivi. Su tantissime di quelle pagine aveva segnato impressioni e pensieri, anche rispetto all’intensità estetica e filosofica di quella fuga. In una incisione ritrovata poi nel Magic Bus c’è la traccia profonda e definitiva di quella scelta: «Due anni lui gira per il mondo: niente telefono, niente piscina, niente cani e gatti, niente sigarette. Libertà estrema, un estremista, un viaggiatore esteta che ha per casa la strada. Così ora, dopo due anni di cammino arriva l’ultima e più grande avventura. L’apogeo della battaglia per uccidere il falso essere interiore, suggella vittoriosamente la rivoluzione spirituale. Per non essere più avvelenato dalla civiltà lui fugge, cammina solo sulla terra per perdersi nella natura selvaggia»3.

E difatti, oltre a Jack London, cita spesso Henry David Thoreau. Ne racconta l’avventura e ne riporta impressioni in un diario che nel film è letto dalla voce fuori campo della sorella, Carine McCandless. Tramite Christopher sembra di risentirli ancora una volta gli echi di Walden: ovvero vita nei boschi il famoso libro di Thoreau. Quei due anni, due mesi e due giorni vissuti da solo nella campagna del Massachusetts, sulle rive del lago Walden, in cui c’è un padroneggiamento poetico della vita attraverso la natura selvaggia: «andai nei boschi – scrive Thoreau – perché desideravo vivere in modo autentico, per affrontare soltanto i problemi essenziali della vita, per vedere se avrei imparato quanto essa aveva da insegnare, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto».

Scelta inconsueta per i cittadini civilizzati del terzo millennio. Eppure, una maggiore identificazione con la prima parte, e cioè quella relativa all’esperienza della fuga, non è rara rintracciarla in molti pensatori e scrittori anche se, va ribadito, qui siamo oltre la semplice fuga. Perché non si tratta nemmeno di una velleitaria rivolta generazionale che si pone come solo compito quello di dissacrare un modello familiare, una piatta vita borghese e la civiltà dei consumi. Il suo allontanarsi dalla civiltà è un penetrare in quella dimensione della natura che lo invita sia ad un principio distruttivo quanto ad uno costruttivo quindi meditante, che si estrinseca grazie a un rapporto diretto e ancestrale con la selvatichezza e le origini.

Ma la natura ha le sue leggi. Il viaggio di Christopher è infatti verso una perfezione impossibile su questa terra. E l’oltrepassare di continuo i limiti lo porterà ad ambire all’assenza di ogni frontiera: a una ricerca che, non conoscendo estremi, pecca di hybris.

La sua morte, smarrito in una foresta fattasi nemica, è elemento significante; quell’Ovest cercato (come l’Ovest di Thoureau) è spazio di epifania e di morte perché la rinascita non può fare a meno di una natura che è accogliente e matrigna, provvidenziale e mortale. E in simili frangenti l’uomo è destinato quasi sempre a soccombere: scalare una montagna, attraversare un deserto, o proiettarci in qualunque altra impresa ci esponga alla ‘hybris’, è azione che non può non scontrarsi con l’immagine plastica della supremazia della natura.

Ci si può ‘realizzare’ solo nella piena consapevolezza di un tutto organico dove la natura è in piena armonia con gli altri esseri viventi; e che, però, non va intesa come un macrocosmo dove regni eterna quiete ma spazio in cui ambire al costante equilibrio fra le parti e in cui l’uomo è integrato e non dominatore assoluto, partecipe del cambiamento e non Signore. E pertanto, malinconicamente cosciente della sua fallibilità.