IMG_1429C’è un filo conduttore che lega la torbida vicenda di Jamal Khashoggi, il giornalista dissidente saudita scomparso nel consolato del suo Paese ad Istanbul, e la liberazione del pastore protestante statunitense Andrew Brunson da parte del Governo turco, entrambe avvenute negli ultimi giorni. Il filo è quello della rivalità interna al mondo musulmano sunnita che vede schierati da un lato Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e dall’altro Turchia e Qatar.

La Turchia di Erdogan, in particolare, con questa doppia mossa, l’aver fatto trapelare i particolari più cruenti dell’eliminazione di Khashoggi da un lato e la liberazione di Brunson dall’altro, cerca di mettere una pezza alla compromissione dei rapporti con Washington. Una compromissione derivata in gran parte dal tentato colpo di Stato del 2016, che Erdogan aveva addebitato al movimento di Fethullah Gullen (definito pubblicamente dalle autorità turche con la sigla FETO, ossia Fethullah Terrorist Organization), residente negli USA e aggravatasi con l’avvicinamento di Ankara a Mosca e l’acquisto di sistemi antiaerei S400 russi, ritenuta incompatibile con l’appartenenza della Turchia alla NATO da parte dei vertici di quest’ultima. Un ruolo decisivo, infine, lo aveva avuto anche l’appoggio americano alle milizie kurde in Siria, spina nel fianco di Erdogan e dei guerriglieri filo-turchi.

Così, se da un lato il riposizionamento turco verso Mosca e l’Iran ha negli ultimi due anni contribuito alla progressiva circoscrizione della crisi in Siria, dove per l’appunto i militanti ribelli nel nord del Paese sono legati proprio ad Ankara, e da ultimo ha partorito l’accordo per la zona de-militarizzata nei pressi di Idlib, dall’altro però è stato all’origine dell’attacco speculativo sulla lira turca di questa estate e delle sanzioni sotto forma di dazi che l’amministrazione Trump ha applicato alla Turchia.

E questa, nonostante le bellicose dichiarazioni contro le scelte della presidenza statunitense, sa benissimo di non potersi alienare completamente il sostegno della Casa Bianca. Non può perché, comunque sia, la momentanea partnership con russi e iraniani, che puntano a conservare l’integrità territoriale della Siria e la permanenza di Assad, non può garantire i disegni di Erdogan.

LA TURCHIA E QUELL’OBIETTIVO DI NOME KIRKUK

L’obiettivo finale del Governo turco è infatti quello di assicurarsi il controllo di tutta la fascia del nord della Siria e dell’Iraq, direttamente o tramite un’entità statuale gestita dalle truppe turcomanne, fino ad entrare in possesso dei giacimenti petroliferi di Kirkuk, nel Kurdistan iracheno. Questa fascia era descritta in un atto parlamentare del 1920, sostanzialmente le ultime volontà del parlamento ottomano prima della sua dissoluzione, citato anche da Erdogan, il Misak-i-Milli, come appartenente alla Turchia. Che, però, perse questi territori solo sei anni più tardi, nel 1926, con il trattato di Ankara che definiva i confini con l’Iraq. Kirkuk può produrre fino a un milione di barili di petrolio l’anno, una quota che può garantire l’intero fabbisogno energetico interno turco, divenuto sempre più “vorace” e incidente per il 50% del deficit commerciale della Turchia verso l’estero. Praticamente una risorsa vitale.

Ecco allora spiegate le mosse degli ultimi giorni, che sono un segnale di riavvicinamento agli americani. Non è un caso che, se pure gli USA hanno sempre supportato nel nord della Siria le truppe curde dell’YPG e contestato il controllo, da parte dei ribelli filo-turchi, della provincia di Manbiji, lo scorso 9 ottobre siano iniziati dei pattugliamenti comuni tra turchi e statunitensi proprio in quest’area, primo passo per aprire un dialogo anche su questo tema.

QATAR E TURCHI PUNTANO AD ARGINARE I SAUDITI

Dialogo e riavvicinamento che avvengono, in questo caso, a discapito dei sauditi. La vicenda Khashoggi, sebbene Trump abbia pubblicamente rifiutato di cancellare gli accordi militari in essere col regno di Riyadh, è una bomba esplosa tra le mani del presidente americano, che proprio sui fedeli alleati e partner sauditi, oltre che con Israele, aveva costruito la propria politica in Medio Oriente, complice anche l’amicizia in essere tra il genero e Consigliere anziano Jared Kushner e il giovane principe saudita Mohammed Bin Salman, che tanto si sta dando da fare per ripulire l’immagine di casa Saud. Anzi, proprio l’Arabia Saudita dovrebbe avere il ruolo di guida di quella MESA che, nelle intenzioni americane, così come recentemente riproposte a margine dell’Assemblea delle Nazioni Unite, potrebbe divenire una sorta di NATO mediorientale, pronta a condurre la “crociata” contro l’eterno nemico Iran. Eterno nemico si, ma principalmente dei sauditi. Perché il Qatar, dove si trova la più grande base statunitense dell’area, non ha mai interrotto, anche per questioni energetiche, i rapporti con il Paese degli ayatollah, così come la Turchia. E così come, allo stesso modo, si oppone all’aggressione a guida saudita dello Yemen.

Indebolire il regno dei Saud nei confronti degli americani proprio in questo frangente, significa per turchi e qatarioti sabotare i progetti di Trump in Medio Oriente e obbligare la Casa Bianca a prendere in considerazione nuovamente le istanze di Ankara e Doha e dei loro comuni protetti, i Fratelli Musulmani. Cosa che, durante la presidenza di Obama, avveniva puntualmente e che aveva prodotto, tra le altre cose, le “primavere” arabe…

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