Gli angeli di Gorla: quando a uccidere sono i “buoni”
Brutta faccenda la guerra. E strana, anche. Strani e mai conosciuti fino in fondo sono i motivi che la scatenano. Ma ancor più strana è la storia della guerra. Scritta, come sempre, dai vincitori. E così, quando passano gli anni, la storia produce sempre una classifica dei morti. Ci sono quelli da ricordare tutti i giorni, quelli che divengono addirittura ideologia. E poi ci sono quelli scomodi. Quelli che, purtroppo, portano cucita la macchia di non essere vittime dei “cattivi” (cioè i perdenti), ma dei “buoni”. I vincitori.
Su di loro cala inevitabile il silenzio. Non che se ne neghi il ricordo. Ma questo deve essere sempre morigerato, austero. Quasi una manifestazione privata e intima di dolore. È stato così, fino a pochi anni fa, per i martiri delle foibe titine. È così per i piccoli martiri della strage di Gorla, alle porte di Milano. Prova ne è che siano relativamente in pochi a conoscere la vicenda, ancora oggi. E allora, forse, visto l’approssimarsi dell’anniversario, vale la pena ricordarla.
Era il 20 ottobre del 1944. Il conflitto mondiale, nel nord Italia, volgeva oramai al termine. I “buoni”, in questo caso gli alleati, avevano messo nel mirino le ultime strutture produttive con capacità belliche della Repubblica Sociale Italiana, che si trovavano in buona parte nel territorio circostante Milano. Quella mattina la 15esima divisione dell’USAAF, le forze aeree americane, fece decollare dalla base di Castelluccio dei Sauri, nel foggiano, 36 cacciabombardieri B-24. Al comando c’era il colonnello James Knapp.
Il mandato era chiaro: distruggere gli stabilimenti Breda situati a Sesto San Giovanni, mentre altre pattuglie aeree americane bombardavano, la stessa mattina, gli stabilimenti dell’Alfa Romeo e dell’Isotta Fraschini. Purtroppo, però, nel caso degli aerei del 451esimo Bomb group, quello al comando di Knapp, le cose non andarono come previsto. Per un tragico errore umano, quelle bombe non caddero sugli stabilimenti Breda. Non caddero neppure su Sesto San Giovanni. 80 tonnellate di ordigni rovinarono invece sul quartiere milanese di Gorla, nella cintura nord della città.
I bombardamenti colpirono, tra le altre cose e in una mattinata di lezioni, una scuola. La scuola elementare “Francesco Crispi”. Una bomba centrò il vano scale dell’istituto. In quel momento, erano le 11.29 del mattino, maestre e bidelli si stavano affrettando a condurre i bimbi dalle aule al rifugio antiaereo. “Forza bambini, correte!”, avranno gridato le insegnanti, con il fiato in gola. I piccoli pulcini, spaventati, erano ammassati sulle scale. Correvano i piccoli e chissà cosa avranno pensato. Forse ai loro genitori, sperando di rivederli. Purtroppo non sarà così. Le loro vite saranno all’improvviso cancellate da un’orgia di fuoco e macerie. 184 i piccoli angeli massacrati, tutti dai 6 ai 12 anni, insieme a 14 insegnanti, la direttrice, quattro bidelli e un’assistente sanitaria. Un’ecatombe.
Oggi, 74 primavere dopo, quelle piccole anime martoriate riposano ancora a pochi metri da lì, nella cripta del monumento a loro dedicato dai concittadini e opera dello scultore Remo Brioschi, inaugurato otto anni dopo il massacro. Per realizzarlo gli abitanti del quartiere dovettero rimetterci anche di tasca propria, con il proprio lavoro e il proprio sudore. Lavoro, sudore e dolore: il prezzo salato della ricostruzione di una vita dalle macerie. Fisiche e morali. Il prezzo della libertà, si diceva di eventi come quello, a guerra finita. Riposano la, in silenzio, le vittime di Gorla. Senza clamore mediatico. Senza trasmissioni televisive che le ricordino. Perché, in quella montagna di ipocrisia che è la memoria storica, così va a finire, alle volte. Soprattutto quando, a uccidere, invece dei “cattivi”, sono i “buoni”.