L’UE in crisi è d’accordo solo sull’anticomunismo. Ma è propaganda anti-russa
Il Parlamento europeo è in subbuglio, alle prese con la sempre più difficoltosa nascita formale della Commissione guidata da Ursula Von Der Leyen, minata dalle divisioni in seno alla maggioranza che dovrebbe sostenerla, dopo la bocciatura della commissaria designata dalla Francia di Emmanuel Macron, la liberale Sylvie Goulard. Divisioni che ora rischiano di far slittare di un mese il voto di conferma alla nuova Commissione, che dal 1 novembre dovrebbe sostituire quella attualmente guidata dall’uscente Jean Claude Juncker, dopo che la fiducia alla Von Der Leyen era stata ottenuta con appena nove voti di margine.
Una situazione ben diversa da quella che ha visto, nel mese di settembre, l’approvazione della risoluzione 2819 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa” da parte del medesimo Parlamento, di cui si è fatto un gran parlare. Si tratta del testo con cui l’emiciclo comunitario ha formalmente proceduto a una sostanziale equiparazione dei totalitarismi comunisti e fascisti per il ruolo avuto nel secondo conflitto mondiale. Così in molti hanno celebrato il riconoscimento delle “colpe del comunismo” come un traguardo di consapevolezza da parte delle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo.
Ma perché si è arrivati a questa decisione proprio ora? Un’interessante lettura di quanto accaduto è quella contenuta in un’analisi recentemente pubblicata da Roberto Motta Sosa, saggista e studioso di storia delle relazioni internazionali e membro dell’équipe di analisti di “Geopolitica.info” portale del Centro studi di geopolitica e relazioni internazionali, che ha parlato di “storiografia come arma nella lotta geopolitica (…) tra la Russia, da un lato, le ex repubbliche sovietiche baltiche più la Polonia(…) dall’altro”.
“Il fallimento del socialismo reale – ha successivamente spiegato Motta Sosa, direttamente interpellato da chi qui scrive – (così come la perversità del nazionalsocialismo) è un dato di fatto, oramai, acclarato. Riconosciuto ciò, sorprendono soprattutto le argomentazioni con cui la risoluzione intende attribuire specifiche responsabilità alla Russia sovietica nell’avere contribuito a scatenare il Secondo conflitto mondiale attraverso il Patto Ribbentrop-Molotov firmato a Mosca e datato 23 agosto 1939, ratificato dal Soviet Supremo il 31 ed entrato in vigore il 24 settembre successivo con lo scambio degli strumenti di ratifica. È perciò forse lecito ritenere che l’Europarlamento abbia ritenuto di affrontare nuovamente il tema dell’intesa tedesco-sovietica del ’39 anche sulla scia delle recenti polemiche nate in occasione delle celebrazioni per l’80esimo anniversario dall’inizio del Secondo conflitto mondiale, che si sono tenute in Polonia e alle quali non è stata invitata la Federazione Russa. Si aggiunga che nell’agosto scorso l’Archivio di Stato russo ha ostentato alcuni documenti relativi alla politica europea negli anni compresi tra la crisi cecoslovacca del 1938 e lo scoppio del conflitto mondiale. Tra questi documenti figurava anche l’originale sovietico del Protocollo segreto annesso al Patto Ribbentrop-Molotov, all’interno del quale sono contenute le clausole con cui tedeschi e russi intesero spartirsi, mediante ‘sfere d’interesse’, l’Europa orientale dal Baltico al Mar Nero. Pare utile aggiungere un dato ulteriore: le tre repubbliche baltiche il 5 novembre 2015 hanno firmato a Riga un memorandum d’intesa in cui menzionavano sofferenze economiche patite durante l’occupazione sovietica; occupazione che fu attuata dall’Armata Rossa proprio in esecuzione dei contenuti del succitato Protocollo segreto”.
Motta Sosa ha parlato, al proposito, di un’Unione Europea “eristica”. “Ho semplicemente voluto utilizzare questa parola – spiega – nel tentativo di sottolineare meglio un dato che mi è parso rivelarsi quasi immediatamente alla lettura del testo della Risoluzione del Parlamento europeo. Vale a dire quello che sembra essere l’intento di fare prevalere una tesi senza considerare se in essa vi siano elementi rispettosi della complessità di ogni singolo aspetto storiografico. Per il suo significato legato al ‘disputare con la parola’ ed il rimando ad Eris mi è sembrata la più adatta. Eris – che spesso era raffigurata come un dèmone alato – per i Greci antichi era la divinità personificante la discordia e taluni la indicavano come sorella di Ares, dio della guerra, con ciò ben esemplificando come i conflitti possano derivare anche da dissidi e contrasti sapientemente creati (ad esempio il famoso ‘dispaccio di Ems’ che nel 1870 fu scintilla della guerra franco-prussiana) o celati sotto intenti in apparenza lusinghieri e appaganti. A quest’ultimo riguardo, l’esempio mitologico più noto è forse il pomo d’oro recante la frase “alla più bella” gettato da Eris durante le nozze di Peleo e Teti a cui la dea non era stata invitata. Dalla contesa che ne seguì tra le tre dee, che si ritenevano tutte degne di quel ‘dono’, scaturì la lunga guerra tra Greci e Troiani cantata da Omero. Del resto, che su determinati argomenti storici esista una forte divergenza di vedute tra la Russia ed alcuni Stati della comunità internazionale lo testimonia, ad esempio, un report del Ministero degli Affari Esteri russo del 6 maggio scorso, in cui si manifestava particolarmente preoccupazione per quelli che la diplomazia russa definiva manovre volte a rivedere la storia della seconda guerra mondiale e a presentare i collaborazionisti nazisti come partecipanti ai movimenti di liberazione nazionali, definendo tali azioni: ‘sforzi blasfemi da parte delle élite politiche di un certo numero di Paesi dell’Europa occidentale e orientale per distruggere la memoria storica’. Peraltro, nel lungo documento si citavano anche alcune organizzazioni, definite ‘neo-fasciste’, attive in Italia”.
La storiografia può dunque essere utilizzata come un’arma?
“Se declinata in senso sofistico sì – spiega l’analista – Rispetto al documento del Parlamento europeo, va anche detto che le controversie relative ai contenuti del Patto Ribbentrop-Molotov erano già state affrontate negli ultimi anni di esistenza dell’Unione Sovietica. Il 24 dicembre 1989 il Congresso dei Deputati del Popolo approvò infatti una risoluzione in cui si recepivano le conclusioni a cui era giunta una commissione costituita ad hoc costituita il 1° giugno di quell’anno per volontà di Michail Gorbačëv nel generale clima contraddistinto da perestrojka e glàsnost. In quel documento si faceva menzione di una ‘situazione internazionale critica’, tale per cui l’URSS nel ’39 si sarebbe sentita minacciata ad occidente dall’aggressività nazista e ad oriente dal militarismo giapponese. Bisogna infatti ricordare che in Asia giapponesi e sovietici (questi ultimi alleati della Mongolia) combattevano già dal maggio del 1939 in quello che fu l’ennesimo episodio di un contenzioso confinario con l’impero giapponese che si protraeva sin dal 1932. Gli scontri ebbero termine il 16 settembre 1939 dopo la battaglia di Nomonhan in cui i russi sconfissero le forze giapponesi dell’Armata del Kwantung grazie anche alle capacità militari di un generale dell’Armata Rossa che di lì a pochi anni avrebbe fatto parlare di sé: Georgij Žukov. Il 13 aprile 1941 la diplomazia sovietica, forte di questa vittoria, provvide a mettere in sicurezza il fianco orientale dell’URSS sottoscrivendo un patto di non aggressione con il Giappone. La situazione non era migliore ad ovest. Il Commissario del Popolo agli Affari Esteri, Maksim Litvinov, era persuaso della necessità di creare, con francesi e inglesi, un sistema di sicurezza collettiva che potesse dissuadere la Germania hitleriana dal perseguire una politica revisionista che attraverso la (minaccia della) forza alterasse la carta geografica europea ovvero minacciasse la sicurezza dell’URSS. Il costante rifiuto di Parigi e Londra oltreché di Varsavia a tale progetto determinò, in sostanza, la caduta di Litvinov (rispedito a Washington in qualità di ambasciatore), spingendo Mosca, obtorto collo, in un abbraccio fatale con Berlino. La tesi di fondo della risoluzione sovietica dell’89 fu che il Patto Ribbentrop-Molotov, pur siglato in condizioni di emergenza per quanto riguardava l’URSS, fosse comunque una deviazione dai princìpi leninisti che uniformavano la politica estera sovietica. Dopo la ‘declassificazione’ operata dall’Archivio di Stato russo nell’agosto scorso, Lavrov ha sostanzialmente ribadito la tesi dello ‘stato di necessità’ cui sarebbe stata soggetta la leadership sovietica nel 1939 al momento della firma del patto”.
Ma la strumentalizzazione della Storia a fini politici o (come in questo caso specifico) geopolitici, non è una novità. “L’uso distorto della Storia per fini politici o di war propaganda – conclude Motta Sosa – è una tentazione cui il potere ha ceduto alcune volte in passato. Per quanto riguarda la Risoluzione del Parlamento europeo ci si augura naturalmente che non sia così. Certo, talune affermazioni contenute in essa possono risultare deboli se lette alla luce di una responsabile e consapevole analisi storiografica. Nondimeno, già alla vigilia della Guerra Fredda la Russia dovette difendersi da un’accusa simile, dopo che il Dipartimento di Stato ebbe reso pubblici i documenti tedeschi sui rapporti nazi-sovietici compresi tra il 1939 e il 1941. Come reazione, il 3 febbraio 1948 il Sovinformburo pubblicò l’opuscolo Falsificatori della storia (inizialmente intitolato Risposta ai calunniatori). L’URSS, infatti, sino alla risoluzione del 1989 citata prima, negò sempre l’esistenza del Protocollo segreto annesso al Patto Ribbentrop-Molotov. Di quel libello voluto da Stalin nel ’48 esiste anche una edizione italiana del 2007 pubblicata con il titolo I falsificatori della storia. Nota sugli autentici responsabili della seconda guerra mondiale. Questo non significa che oggi, dal canto suo, la Russia non offra ciò che alcuni Stati europei, soprattutto dell’area baltica, considerano validi motivi per esprimere recriminazioni nei confronti di atteggiamenti interpretati come gravi provocazioni. Ad esempio, nel Report annuale del Segretario generale dell’Alleanza Atlantica datato 2015 si faceva menzione del fatto che nei tre anni precedenti la Russia avesse condotto esercitazioni militari su larga scala nelle quali si simulavano attacchi nucleari contro alleati e partner della NATO. Queste e altre questioni geopolitiche attualmente oggetto di aspro contenzioso (ricordo ad esempio le controversie sul gasdotto Nord Stream 2 o l’estinzione del Trattato INF), contribuiscono ad alimentare un clima di forte incomprensione, soprattutto tra i Paesi baltici e la Russia. In tal senso l’idea, suggerita nel 1998 da George Kennan – che certamente non può essere ricordato come un appeaser nei riguardi della potenza russa – circa il rischio che oggi si possa essere dinnanzi ad una New Cold War appare, purtroppo, fondata”.