Le fake news al tempo del Covid: come funziona la disinformazione in una società sempre più orwelliana
Due anni fa veniva pubblicato, per i tipi di Arianna Editrice, il saggio “Fake News”, della scrittrice e giornalista Enrica Perucchietti, con prefazione dell’attuale presidente della RAI, Marcello Foa. Il volume, che riscosse immediato successo, mostrava una copertina provocatoria: un uomo con la bocca simbolicamente tappata da un fazzoletto bianco. Non è forse e allora un caso che la nuova edizione, aggiornata, ampliata e con la prestigiosa aggiunta di un’introduzione firmata da Marcello Veneziani, sia uscita in questi giorni, nel pieno di una pandemia che ha costretto a coprire la bocca tutta l’umanità…
“In effetti – spiega l’autrice – il nemico invisibile ci ha tappato la bocca ed eroso sempre maggiori libertà e spazi di socialità, traghettandoci verso un paradigma di ‘uomo virtuale’, una creatura sola, spaesata, terrorizzata, ipocondriaca, che nutre sospetto verso chiunque possa rappresentare una minaccia per la salute e la sicurezza. La riedizione aggiornata e ampliata del libro vuole, da un lato mostrare come sia l’informazione ai tempi del Covid-19 (sempre più spettacolarizzata, contrastante, contraddittoria e a tratti indistinguibile dalla propaganda), dall’altro documentare e spiegare, esempi alla mano, come essa abbia fallito l’intento di essere obbiettiva. Il giornalismo sta infatti diventando una filiera, una catena di montaggio per aumentare l’efficienza e ridurre i tempi e i costi di produzione: si dedica sempre meno tempo a verificare le notizie, prediligendo la quantità e la spettacolarizzazione, le insinuazioni piccanti e i retroscena che possono portare a vendere qualche copia in più di un quotidiano o a soddisfare qualche linea politica o editoriale. L’attuale pandemia ha legittimato un’accelerazione nel tentativo di creare una informazione certificata, le notizie col “bollino” degli autoproclamati professionisti dell’informazione di cui già parlavo nella prima edizione, legittimando pertanto il controllo e l’oscuramento dei contenuti che non collimano con la narrativa del pensiero unico (i casi sono ormai all’ordine del giorno). A ciò si aggiunge il problema delle ‘fake news’ e della post-verità che negli ultimi anni ha acquisito sempre più spazio e importanza anche nel dibattito pubblico, portando alla presentazione di disegni di legge, alla creazione di task force e Commissioni parlamentari e dall’altro a stringere sempre di più le maglie della censura dell’informazione controcorrente”.
Quando si parla di fake news, in effetti, spesso lo si fa additando l’informazione cosiddetta “non allineata”, ritenuta colpevole di ogni male, soprattutto in questo periodo. In realtà però le bufale vengono diffuse anche dalla stampa mainstream…
“Ho voluto inserire – prosegue l’autrice a proposito del suo libro – numerosi esempi di fake news diffuse dai media mainstream per mostrare come nemmeno il giornalismo classico sia immune dal prendere cantonate e diffondere notizie infondate: dalle “armi di distruzione di massa iraquene” alla strage di Timisoara, dalle bufale grottesche sulla Corea del Nord (che in realtà provenivano da giornali semisatirici sud-coreani) alle notizie sfacciatamente false sul Covid-19 (dallo scandalo Surgisphere sulla falsa tossicità dell’idrossiclorochina alle numerose bufale diffuse nei mesi per generare terrorismo mediatico e mantenere una narrazione catastrofistica), dalla strumentalizzazione di tematiche politicamente corrette (tramite il ricorso alla tecnica dell’empatia e la tecnica del ‘frame’) alla censura ‘costruttiva’ e il boicottaggio di notizie scomode per il Sistema. A ciò ho voluto anche aggiungere un intero capitolo sull’utilizzo mediatico delle fallacie, ossia di quelle tecniche retoriche specifiche che vengono utilizzate per sabotare e disinnescare qualunque tipo di confronto ritenuto pericoloso e liquidare il confronto, fino all’analisi del fenomeno della patologizzazione del dissenso”
Una discreta importanza è stata assegnata, sempre dal contesto del pensiero dominante, ai cosiddetti “debunker“, i “cacciatori di bufale”, che, però e molto spesso, non sono certamente attori disinteressati nel mondo dell’informazione.
“A mio dire – prosegue la Perucchietti – rappresentano i mastini del pensiero unico, i guardiani dei cancelli dell’informazione certificata. Il totalitarismo democratico ha infatti i suoi cani da guardia, i suoi psicopoliziotti, pronti a riportare all’ovile chiunque dissenta od osi manifestare pubblicamente dei dubbi. Il senso critico non è consentito ed è pericoloso perché può “contagiare” il resto della popolazione, portando a un calo di consenso e va pertanto limitato, ostacolato, censurato. Il debunking classico è una forma di manipolazione che consiste nello smontare e confutare, facendone apparire l’infondatezza e la capziosità, teorie e informazioni che vanno contro il pensiero ufficiale o dominante. Si utilizza anche il discredito e il dileggio, se non addirittura il cyberbullismo, per ridicolizzare i diffusori di queste teorie indipendenti. Per screditare un ricercatore e le sue teorie, i debunkers usano tutti i mezzi possibili, compreso l’attacco personale e la strumentalizzazione di qualunque cosa possa tornare utile alla causa. Principalmente una teoria scomoda verrà bollata come paranoica, complottista, bugiarda, estrema, oscurantista: lo scopo è rendere insensata, folle la teoria e un pazzo bugiardo chi la promuove (e allora sarà a seconda delle volte, verrà etichettato come un “complottista”, un “negazionista”, un “fascista”, ecc.) in modo da delegittimarne le ricerche e rovinarne la reputazione. Costoro, inoltre, sostengono la censura del web e dell’informazione controcorrente, quando per primo è proprio il potere a manipolare l’informazione, a fare propaganda e a diffondere fake news, ricorrendo a tecniche auree dell’ingegneria sociale. Se dovessimo censurare, multare, arrestare coloro che mentono, i primi a farne le spese dovrebbero essere alcuni giornalisti e molti, molti politici”.
La disamina della situazione dell’informazione contemporanea parte, nel saggio, da Orwell (il riferimento naturalmente è a 1984). Una situazione cui, oggi, siamo incredibilmente vicini.
“In parte – conclude la scrittrice – stiamo già vivendo diversi aspetti preconizzati da Orwell in 1984: siamo sottoposti da mesi a una politica dell’odio, del sospetto, della paura e della solitudine, volta a distruggere ogni tipo di rapporto sociale (vi sono persino riferimenti alla Lega antisesso orwelliana), a disorientare e spersonalizzare gli individui, a incentivare la delazione, a legittimare l’autoritarismo, a creare fazioni offrendo alle masse capri espiatori contro cui proiettare le proprie pulsioni di morte e le proprie paure, a giustificare la psicopolizia e le sanzioni contro gli psicocriminali. I poteri dominanti sembrano aver deciso di sfruttare come un pretesto la pandemia per stringere le maglie del controllo sociale grazie all’introduzione di dispositivi governativi basati sulla ‘biosicurezza’, instradandoci verso una distopia simile al totalitarismo cupo immaginato da Orwell che presumibilmente culminerà in un Grande Reset. Il Grande Reset viene presentato come ‘un’occasione’ derivante dal Covid-19 e si presenta come la promozione di un’Agenda globale volta a scardinare e ristrutturare l’economia mondiale secondo linee specifiche. Non si tratta, però, come molti economisti pensano, ‘solo’ di un reset dell’economia mondiale, perché il crollo dell’economia industriale si pone come trampolino di lancio per ben altri obiettivi che coinvolgeranno e sconvolgeranno l’intera società, traghettandola verso una direzione post-umana che avevo già analizzato in Cyberuomo. La paura (inoculata quotidianamente dai media mainstream, dai loro bollettini dei morti e dalla loro ‘criminologia sanitaria’) e la minaccia della salute, infatti, hanno indotto nell’opinione pubblica l’idea che si debba per forza scegliere tra salute e libertà per poter tornare a sentirsi ‘sicuri’ arrivando ad accettare di cedere libertà, privacy, diritti fondamentali e acconsentire mansuetamente a qualunque regola imposta dall’alto, mostrando una cieca e passiva obbedienza nei confronti dell’autorità. Come se non bastasse, e qua torniamo al tema portante del mio libro, abbiamo anche assistito alla creazione strisciante di una specie di Miniver orwelliano con l’obiettivo di vigilare su cosa è vero e cosa no e di silenziare le opinioni ‘dissidenti’. Dissidenti che vengono sempre più spesso equiparati a dei ‘pazzi’, aprendo alla patologizzazione del dissenso e a una moderna forma di psicoreato”.