Il referendum e la destra (smarrita) del nord
Ho sempre detestato l’assioma “il privato è politico, il politico è privato”. Cazzate. Raccontarsi è cosa volgare. Come vivo e lavoro, cosa faccio, come mi diverto e, per di più, cosa voto sono fatti miei e non debbo renderne conto a nessuno. Figuriamoci poi se debbo giustificare (a chi, poi…?) la mia scelta sul referendum lombardo-veneto. Ma questa volta faccio un’eccezione. Ho votato il referendum e molti amici — lombardo-veneti e non — mi hanno chiesto le ragioni della mia scelta. Allora tocca spiegare.
Per me, figlio dell’esodo istro-dalmata, la Patria non è la nazionale di calcio o una canzonetta. La Patria è mio padre esule nel ’45, la Patria è la difesa di Trieste dal bilinguismo negli anni Settanta, la Patria sono i nostri soldati perduti in guerre lontane, la Patria sono gli imprenditori che si svenano per salvare dalle tasse la loro azienda (e i posti di lavoro), la Patria sono le intelligenze che debbono emigrare per trovare un lavoro serio e retribuito. La Patria è una cosa seria. La Patria, quella vera, nulla c’entra — qualcuno avverta la Meloni, il PD, i sinistrosi, gli “unitaristi” da bar e i neo-borbonici o gli orfani del papa-re o del kaiser — con l’attuale struttura centralista e tanto meno con i referendum.
La costruzione della Patria è, da un secolo e mezzo, cosa complessa, difficile, sofferta e ancora irrisolta. Per capirlo basta rileggere le tante pagine del processo risorgimentale, quella formidabile rivoluzione nazionale italiana che scosse gli equilibri dell’intera Europa. Con idee innovative. Già nel 1849 — come ha ricordato su Destra.it Raffaele Zanon — il “doge” della rivoluzione marciana, Daniele Manin, intravedeva nel fuoco dell’assedio di Venezia un’idea di Stato plurale. Poi, nel 1860, Cavour, il pater patriae, con il valtellinese Luigi Torelli, altro personaggio straordinario quanto dimenticato, immaginarono a loro volta una struttura federale, rispettosa delle diversità e delle identità. Purtroppo il conte venne a mancare e la destra storica — “onesti notabili senza genio” come l’ottimo Volpe stigmatizzò — optò per il centralismo di stampo bonapartista. Vista la fragilità dello Stato unitario, fu una soluzione opportuna e comoda, ma di corto respiro. Morti Crispi e Giolitti, finito il fascismo — “tutto nello Stato, niente contro Stato” etc… — venne la repubblica e negli anni ’70 il regionalismo. Tanti, troppi parlamentini con tanti e troppi deputatini, burocrati e cortigiani. I risultati, non entusiasmanti, sono noti. Frammentazione, clientelismo, ruberie, apparati inutili, ritardi, sprechi. La “questione meridionale” a cui si è sovrapposta, inevitabilmente, la “questione settentrionale”. Da qui la stagnazione.
Torniamo all’oggi. Il referendum del Lombardo Veneto — un’area di 15 milioni di persone, il cuore pulsante dell’economia nazionale, il centro della modernità italiana — spariglia le carte; i risultati della votazione (non trascurabili e non eludibili) obbligheranno tutte le forze politiche a ragionare sul futuro e a ridiscutere l’assetto statuale, economico e fiscale dell’imperfetta costruzione nazionale. Al nord non vi è nessun rischio Catalogna (figuriamoci…) ma all’Italia tutta servono altre architetture, altri equilibri. Anche, come ha ben spiegato Renato Besana su “Libero”, per sostenere lo sviluppo del Sud.
Il Lombardo Veneto è un campo di lavoro terribilmente impegnativo in cui s’intrecciano vecchi problemi e nuovi panorami della rivoluzione tecnologica, nodi irrisolti e scenari futuribili. Per destra politica settentrionale, oggi impegnata solo in campagne residuali e/o subalterne ai salvinani, potrebbe essere l’occasione per ritrovare finalmente una qualche centralità. Non ci vorrebbe molto. Per iniziare, basterebbe rileggere lo schema presidenzialista di Almirante e Franchi oppure il progetto delle macro-regioni del professor Gianfranco Miglio e i documenti sul federalismo di A.N negli anni Novanta (qualcuno ricorda il convegno di Verona?).
Sarebbe poi utile ascoltare le Università, i centri studi, gli analisti, le categorie produttive. E ragionare su infrastrutture, logistica, fisco, previdenza, tecnologia. Confrontarsi, studiare, pensare per poi sviluppare un progetto innovativo e tentare di convincere. Un compito arduo, difficile ma ben più appagante dal ripetere vecchi slogan per inseguire seggi sempre più improbabili.