Con la morte a Minneapolis dell’afro-americano George Floyd e con l’incattivirsi della mobilitazione anti Trump un’ondata di cieca intolleranza si è scatenata negli Stati Uniti (con pericolose contaminazioni in Europa, Italia compresa). In pochi giorni una vicenda crudele ma minore — la violenza che scorre nella società statunitense è cosa ben nota — si è trasformata nel simbolo (o il pretesto?) per una crociata ideologica che, nel nome di un antirazzismo violento, vuole imporre il diritto al “risarcimento” e cancellare le figure del passato che, a torto o a ragione, sono accusate sommariamente di razzismo, colonialismo o solo di troppo “occidentalismo”.

È la cancel culture «un nuovo mostro», come notava su “Il Giornale” Luigi Mascheroni «un ulteriore pericolosissimo upgrade del politicamente corretto. Mentre il secondo si preoccupa di boicottare un singolo libro, un’opera o un film non conformista, la prima fa un passo ulteriore: mette in discussione lo stesso diritto a parlare o a scrivere in ambito pubblico. La cancel culture, una political correctness impacchettata in una confezione di lusso, è quel fenomeno per cui, ad esempio, una major cinematografica, o un editore, o un’università, o il consiglio comunale di una città, spaventati dall’idea di essere demonizzati da una folla inferocita, in piazza o sui social, composta da minoranze nere, gialle, femmine o arcobaleno, rinunciano a fare il proprio lavoro: produrre cultura».

Un desiderio di vendetta mascherato da invocazioni alla “bontà” e alla “giustizia”, un odio solido che impone censure, inginocchiamenti collettivi, sbullonamenti di monumenti — in primis, quelli del povero Cristoforo Colombo — e tracima fangoso dalle università ai media e a Hollywood e s’infila persino nei gangli più delicati della macchina statale.

Nella narrazione dei (molto provinciali) media progressisti nostrani si tratta di un fenomeno spontaneo, di un’indignazione di massa, senza padrini o registi. Anche soltanto metterlo in dubbio diventa un delitto di lesa maestà… Peccato che i potenti sponsor dei BLM e iconoclasti assortiti amino la pubblicità e la fama. È il caso dell’Andrew Mellon Foundation, la più importante fondazione artistico-culturale americana creata nel 1969 con i lasciti di Andrew Mellon, uno dei massimi esponenti del capitalismo USA (e della massoneria star and stripes). Lo scorso 5 ottobre, sul sito ufficiale dell’organizzazione, è stato annunciato in pompa magna il Monument Project, un’iniziativa forte di 250 milioni di dollari (pianificati su 5 anni) per re-inventare e trasformare ogni spazio commemorativo —monumenti, sacrari, musei — secondo le regole della cancel culture. Leggere per credere: “to reimagine and rebuilt commemorative spaces and trasform the way history is told in USA». I tanti denari della Mellon serviranno a innalzare nuove statue (indovinate a chi dedicate?), contestualizzare i monumenti esistenti (ma solo quelli graditi) e ricollocare (?) quelli non graditi.

Da oggi poi sarà compito dei “story tellers” e dei “memory workers” (presumiamo ben pagati) della Mellon Foundation riscrivere, a loro modo e a loro gusto, l’intera storia nazionale degli States. Come nelle peggiori dittature comuniste o nelle più cupe teocrazie, il passato diverrà una pagina bianca su cui l’illuminato di turno potrà vergare qualsiasi sciocchezza e imporre qualsiasi bugia. Gli avvertimenti di George Orwell e di Aldous Huxeley sono ormai il nostro presente.

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