D’Annunzio, “disobbediente” ad intermittenza. Il libro di Eugenio Di Rienzo
Sceso il silenzio sui campi di battaglia il 18 gennaio 1919 si apriva la Conferenza di Versailles. Fu allora, riprendendo il colonello T. E. Lawrence, alias Lawrence d’Arabia, che «all’alba del mondo nuovo, gli uomini vecchi tornarono e decisero la loro pace». Sorgeva il nuovo ordine post bellico euro-atlantico, esiziale redde rationem ai nemici sconfitti e brusco rappel à l’ordre per gli alleati minori: Italia, Belgio, Serbia, Grecia, Romania, Giappone, Portogallo. In guerra presenze necessarie e, talvolta, indispensabili, in pace fastidiosi coriandoli. Da premiare (Belgio e Giappone), usare (Serbia e Grecia) o marginalizzare. Fu il caso dell’Italia.
Purtroppo a rappresentare a Parigi la nazione vittoriosa di Vittorio Veneto, arrivarono uomini culturalmente antiquati e decisamente più inadeguati dei loro agguerriti colleghi: il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George, lo statunitense Wilson. Il peggiore. Una volta seduti sulle comode poltrone della Galerie des glaces, lustro della reggia di Luigi XIV, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e l’ex premier Antonio Salandra si resero presto conto di contare poco o niente.
Come tratteggia con maestria Eugenio Di Rienzo — grande storico, penna brillante e intelligenza coraggiosa — nel suo poderoso quanto innovativo “D’Annunzio diplomatico e l’Impresa di Fiume” (Rubbettino, pp 942, euro 45,00), per i “grandi” di Versailles lo Stivale doveva rassegnarsi ad un ruolo da junior partner, rinunciare ad ogni ipotesi d’autosufficienza economica e a miraggi d’autonomia politica e accettare una sorta di sovranità limitata. I delegati — già preoccupati dai conflitti sociali in atto e angosciati dai tanti debiti accumulati durante il conflitto — non furono all’altezza della situazione e inanellarono una serie di errori che indebolirono ulteriormente la già debole posizione dell’Italia. Gli alleati ci accusarono d’egoismo, sminuirono il nostro apporto, si dimenticarono con facilità estrema dei patti londinesi, rintuzzarono ogni appetito coloniale e — con il sostegno dell’italofobico Wilson — cercarono di bloccare tutte le ambizioni italiane sull’Adriatico e nei Balcani.
La nuova Jugoslavia monarchica divenne il contraltare, l’adeguato antemurale ai progetti di Roma. Aizzati dal presidente americano, Nikola Pasic e Ante Trumbic, i capi delegazione del neonato Stato degli Slavi meridionali, rivendicarono l’intera costa orientale adriatica, dalle foci dell’Isonzo a Spizza, comprese Trieste, Gorizia, Pola e, ovviamente, Fiume. Come stigmatizza Di Rienzo, si trattò di un esercizio «d’imperialismo straccione» che, vent’anni dopo, Josif Broz Tito riprese con funesto successo.
Alla fine la Conferenza si ridusse ad un problema di rapporti di forza tra ineguali, un confronto impari che un personale politico ormai logorato non poteva reggere. Orlando, Salandra e Sonnino strillarono, minacciarono, piansero, partirono e poi tornarono e, infine, il 28 giugno 1919 firmarono.
Caduto il governo Orlando e subentrato il ministero Nitti, l’Italia si ritrovò ancor più isolata, ignorata, dileggiata. Il 4 settembre in un discorso «farisaico e suadente nei toni ma durissimo nella sostanza e persino irridente verso la posizione italiana» tenuto a Colombus nell’Ohio, il lugubre Wilson liquidò la questione con sprezzanti parole: «ebbi a ricordare ai miei colleghi italiani che se avevano intenzione di reclamare ogni luogo ove vi sia una grande popolazione italiana, noi dovremo cedere New York perché vi sono più italiani a New York che in una città d’Italia». Amen.
In Patria il mito della “vittoria mutilata” divenne facile argomento per le opposizioni nazionaliste e un boccone indigeribile per il complesso politico militare che la guerra aveva voluto, condotto e vinto. Poi accadde l’imprevedibile. Partendo da Ronchi il 12 settembre Gabriele d’Annunzio, il pluridecorato “Poeta Soldato”, occupò Fiume —la città simbolo della contesa adriatica — con un pugno di soldati. Un colpo di mano in ottica anti jugoslava che, come vedremo, si trasformò in un clamoroso guanto di sfida contro «i divoratori di carne umana […] Quell’Occidente degenere diventato un’immensa banca in servizio della spietata plutocrazia transatlantica»; a farne le spese il riformista Nitti, ribattezzato all’istante “Cagoja”, e il suo fragile governo.
Da subito la ventura fiumana infiammò le piazze italiane e incrinò pericolosamente la compattezza delle forze armate. In quei giorni d’entusiasmo e sana follia, la città si colorò di tricolori. Coccarde, fiamme, striscioni, bandiere avvolsero in un unico manto bianco-rosso-verde arditi, aviatori, marinai, granatieri. Medaglie d’Oro, d’Argento e Bronzo. I coraggiosi della Grande guerra prontamente raggiunti da una folla di artisti, goliardi, avventurieri, esteti. I legionari fiumani. Nella Reggenza italiana del Carnaro prese così forma il sogno impossibile dei combattenti, quell’incredibile “festa della rivoluzione” — riprendendo il titolo del bel libro di Claudia Salaris — tanto agognata, desiderata, sognata e, infine, raggiunta e conquistata. In quei immaginifici venti mesi — tanto durò l’Impresa — quel tormentato angolo dell’Adriatico “amarissimo” si trasformò in un palcoscenico per una rappresentazione straordinaria, una permanente festa mobile eccitata dai proclami del Vate, sostenuta dalle baionette degli “insubordinati” e dall’amore dei fiumani.
Ma, come ben spiega Di Rienzo, accanto e al di là degli alati discorsi dalla chiostra del Palazzo del Governo, dei pitali lanciati su Montecitorio da un personaggio salgariano come l’aviatore Guido Keller, delle performance futuriste di Marinetti, del concerto di Toscanini e gli abbordaggi dei filibustieri di d’Annunzio — dal poeta prontamente rinominati, come i pirati seicenteschi, “uscocchi” —, molto altro si muoveva dentro e attorno la “Città di vita”.
Una somma di eventi simili ad un caleidoscopio con colori accesi sovrapposti a toni opachi che, pagina dopo pagina, il professore srotola con meticolosità, elencando e studiando per la prima volta in modo analitico i tanti personaggi e le innumerevoli (e spesso indicibili) combinazioni che ritmarono e condizionarono i 476 giorni di Fiume dannunziana.
Andiamo per ordine. Lo storico romano ha innanzitutto esaminato con meticolosità gli inesplorati carteggi tra il Comandante e il conte Sforza, sottosegretario agli Esteri con Nitti e, dal giugno 1920, ministro degli Esteri nel governo Giolitti. Questi e gli altri documenti ritrovati fanno finalmente piena luce sull’intera vicenda svelando la fitta rete di contatti tra il pirotecnico reggente — invero “disobbediente” ad intermittenza e inizialmente sinergico invece ai progetti romani — e il governo, la monarchia, le forze armate, i circoli industriali e la sempre presente massoneria: un gioco d’ombre e reciproche astuzie su un’unica trama tesa a conservare all’Italia, bon gré mal gré, Fiume e pezzi di Dalmazia e, magari, far implodere la Jugoslavia e assicurarsi, evaporate le speranze di un’espansione in Africa, nel Levante o nel Caucaso, uno sbocco economico in Balcania e nell’area danubiana. Il tutto malgrado e contro gli alleati di ieri, per nulla generosi e pronti ad ogni misura pur di ridimensionare il troppo ambizioso regno di Vittorio Emanuele.
Un gioco sottile, tutto nel solco della spregiudicata “diplomazia di movimento” di cavouriana memoria, che aveva, come sottolinea l’autore, al suo centro proprio Fiume, «insieme a Trieste l’unico grande porto dell’Alto Adriatico attraverso cui, obbligatoriamente, doveva convergere il traffico commerciale diretto verso il Mediterraneo orientale e il varco di Fiume, proveniente dalla Germania, dall’Europa centrale, dai Balcani, dall’Ungheria, dalla Romania. Poco da meravigliarsi, allora se vista respinta anche questa richiesta i rappresentanti del mondo economico italiano abbandonarono il tavolo della diplomazia ufficiale per giocare la carta della “diplomazia corsara” che il coup de force dannunziano poteva mettere nelle loro mani».
Da qui, come ricostruito dall’autore, il massiccio sostegno finanziario all’Impresa da parte «dell’ala marciante dell’industria e della Finanza italiana, parte della quale era già molto impegnata nella conquista dei mercati balcanici: Giovanni Agnelli, Alberto Beneduce, Oscar Sinigallia, Giuseppe Volpi, Mario e Pio Perrone, Alberto Pirelli, Guido Donegani, Vittorio Cini. E last but not least l’amministratore delegato della Banca Commerciale, Giuseppe Leopoldo Toeplitz». Un cartello potente — dominato dai “pescecani industriali” che sul conflitto mondiale avevano ben lucrato e fatturato — in cui s’intrecciavano interessi economici pesantissimi e aperti richiami alla fratellanza massonica che legava molti dei capitalisti nostrani alla cupola apicale delle forze armate, in particolare quella della Regia Marina.
Non a caso. Una volta incassati i verdetti di Versailles, per la Marina la questione adriatica divenne una vera e propria ossessione. Parlando al Senato, l’ammiraglio Thaon de Revel — affiliato alla fratellanza come Emanuele Filiberto d’Aosta, Badoglio e altri generali e ammiragli presenti sul confine orientale — ribadì la posizione della forza armata: «senza il dominio della Dalmazia e del suo arcipelago, le aperte, popolose e ricche coste della Romagna e della Puglia saranno alla mercé del nemico e poco importa che non esista più la duplice monarchia perché nel nuovo regno dei serbi-croati si sarebbero sempre potuto installare basi nemiche, per esempio francesi, e all’Italia mancherà la sicurezza adriatica tanto a lei necessaria, dovendo essa prevedere ancora una volta la contemporaneità delle offese da levante e da ponente».
Non stupisce quindi l’aplomb dell’ammiraglio nel definire al Consiglio della Corona del 25 settembre ’19 la presa di Fiume un semplice «deplorevole episodio» di cui bisognava, prima di condannarlo, «risalirne la cause». Un giudizio condiviso dai vertici navali, compreso il nuovo ministro della Marina Giovanni Sechi e il governatore della Dalmazia Enrico Millo, l’eroe dei Dardanelli. Da qui il forte appoggio della Regia — con il felpato assenso, come Di Rienzo insegna, di Nitti e Sforza — agli “ammutinati” fiumani. Nel fatico 12 settembre le navi ormeggiate a Fiume, la corazzata Dante Alighieri e tre caccia, rimasero inerti e gli equipaggi si unirono ai legionari, Nitti ordinò formalmente il rientro immediato delle unità ma nessuno lo ascoltò. Pochi giorni dopo Luigi Rizzo, l’eroe di Premuda, si unì ai ribelli. Un colpo mediatico seguito dalla defezione di quattro caccia, due torpediniere, quattro Mas e una nave trasporto. D’Annunzio aveva la sua piccola flottiglia adatta a colpi di mano sulla Dalmazia e pronta, come previsto dal piano di guerra preparato da Revel nell’estate del 1920, ad unirsi alla Regia per colpire la Jugoslavia.
Al tempo stesso d’Annunzio incassava l’appoggio entusiastico del “Popolo d’Italia”, il quotidiano di Benito Mussolini che il 14 ottobre 1919 lanciava la “grande sottoscrizione nazionale” che raccolse ben tre milioni di lire donati soprattutto da reduci e dagli emigranti. Un successo. Ma sebbene apparentemente solido, il rapporto tra il futuro Duce e il Vate rimase però sempre permeato da ambiguità, diffidenze e, persino, veri e propri voltafaccia come fu, nella crisi finale del dicembre 1920, il ritrarsi di Mussolini su posizioni governiste con l’interruzione dell’appoggio militare delle squadre fasciste giuliane agli assediati.
Di Rienzo però non si è limitato a riassumere la turbolenta “liaison” tra le due opposte personalità ma, con chiarezza estrema, ha voluto indagare in profondità il d’Annunzio politico restituendo così al personaggio la propria contradditoria originalità e il suo profilo “ereticale”. L’Immaginifico — tutt’altro che un ingenuo o uno sprovveduto e tanto meno un proto-fascista, come sostiene ancor oggi una certa vulgata — non solo riuscì a gestire a lungo i complessi rapporti con il potere romano e le sue plurime diramazioni ma diresse con maestria le diverse componenti del fiumanesimo — militari, nazionalisti, mussoliniani, futuristi, soreliani, irredentisti democratici, socialisti, anarchici, cripto bolscevichi etc. — mantenendo sempre saldo il comando e racchiudendo le tante anime dell’Impresa in una costituzione poetica quanto improbabile come la famosa Carta del Carnaro.
Il vero capolavoro dannunziano rimane però la “Lega dei popoli oppressi”, un tentativo ambizioso che fissava inaspettatamente le coordinate della politica internazionale di Fiume (e dell’Italia post bellica…) su orizzonti globali. Nell’aprile 1920 dalla sua ducea adriatica il reggente lanciò una sfida — proiettando così l’Impresa oltre l’angusta frontiera balcanica, piccolo teatro della guerra a bassa intensità italo-serba — all’intero assetto postbellico imposto a Versailles dalle plutocrazie occidentali. L’appello agli sconfitti della guerra mondiale — austriaci, ungheresi, tedeschi, russi, turchi —, agli indipendentisti fiamminghi, catalani, montenegrini, irlandesi ed egiziani — «dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la mezzaluna e la croce»—, ai popoli sottomessi dagli anglo-americani— indiani, cinesi, filippini e persino afro-americani statunitensi —, preoccupò non poco la Gran Bretagna. Dai materiali ritrovati dall’autore negli archivi del Foreign Office e dell’Ammiragliato si evince come Londra considerasse il movimento fiumano «un pasticciato imbroglio degno della patria di Macchiavelli» potenzialmente pericoloso per gli equilibri imperiali. L’iniziativa non sfuggì nemmeno a Lenin, da tempo ammiratore di d’Annunzio, che dopo una serie di contatti informali con la Reggenza decise di anticiparne le mosse convocando a Baku il Congresso dei popoli dell’Oriente.
Come è noto l’utopica “Lega dei popoli oppressi”, una sorta di anti Società delle Nazioni, rimase allo stadio progettuale (anche per volontà dello stesso d’Annunzio), ma oltre ad inquietare gli albionici disturbò assai anche i vecchi poteri italiani che non gradirono questo inatteso deragliamento dalla questione adriatica. Per quanto velleitaria la “vera Santa Alleanza”, come la definì Léon Kochniztky, responsabile delle “Relazioni Esteriori” della Reggenza, annunciava una assoluta discontinuità con le politiche coloniali crispine e giolittiane e con le tradizionali visioni eurocentriche delle classi dirigenti liberali.
A riprendere almeno in parte le linee dannunziane, come già intuito da Renzo De Felice ne “Il Fascismo e l’Oriente” e ora pienamente confermato da Di Rienzo, fu il callido Benito. Oltre a saccheggiare e inglobare la coreografia fiumana — riti, appelli, simboli, parole d’ordine — il regime littorio una volta consolidato: «si appropriò anche delle linee guida della politica estera partorita da d’Annunzio: l’espansionismo mediterraneo, la guerra per procura contro la Jugoslavia e la Grecia, l’alleanza con i “vinti della Grande Guerra”, il disegno, rivolto soprattutto al mondo arabo, finalizzato a unire nella “crociata del sangue contro l’oro”, tutte le nazioni soggette al dominio dell’imperialismo britannico».
Di certo la frenetica “diplomazia di movimento” del Vate e dei suoi fedeli più entusiasti convinse gli interlocutori interni — molto rapaci e molto prudenti — ha lesinare i sostegni economici all’Impresa e, al tempo stesso, iniziare a premere sul sovrano e sul governo per una conclusione “onorevole” (e possibilmente conveniente) dell’ingarbugliata vicenda. Toccò a Giovanni Giolitti, uomo ben più strutturato del modesto Nitti. Nonostante gli squilli di rivolta e i tamburi di guerra che ritmavano l’immediato dopoguerra italiano e i fantasiosi progetti di colpi di Stato, il 12 novembre 1920 a Rapallo Giolitti chiuse, con l’assenso dei franco-britannici e il plauso di Mussolini, la difficile trattativa italo-jugoslava. L’accordo stabiliva la fine dell’ingombrante Reggenza dannunziana, la costituzione dello Stato libero di Fiume (sotto controllo italiano) e la sovranità su Zara, Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa con la rinuncia alla Dalmazia. Ragusa, ormai ampiamente croatizzata negli anni del governo asburgico, veniva inglobata nel regno dei Karadordevic e agli italofoni locali non restò che la via dell’esilio.
Esercizi di realpolitik che d’Annunzio, per una volta veramente “disobbediente”, ritenne inaccettabili. Alla richiesta di disarmo e smobilitazione il Primo Rettore, temendo uno o più inganni, rispose picche pretendendo, come Di Rienzo scrive: «l’annessione immediata dello Stato di Fiume all’Italia, insieme all’espansione dei suoi confini fino a comprendere Veglia, Arbe, i sobborghi recentemente occupati, il delta dell’Eneo, Porto Barros, una striscia di territorio a nord della città e la limitrofa fascia costiera. Un vero e proprio salto nel buio».
Al rifiuto netto del governo di ridiscutere e disconoscere gli accordi presi a Rapallo, i legionari occuparono le isole di Veglia e Arbe, assegnate a Belgrado, e dichiararono lo stato di guerra. Giolitti non perse tempo e il 24 dicembre ordinò al generale Caviglia e all’ammiraglio Simonetti di sgomberare gli “insubordinati”. Fu il “Natale di sangue”, una piccola guerra italo-italiana: tre giorni di sanguinosi combattimenti risolti di fatto da poche cannonate tirate, a scopo intimidatorio, dalla corazzata Andrea Doria sul palazzo della Reggenza. Bastarono. Il 29 il Vate cedette i poteri e il 18 gennaio 1921, assieme agli ultimi volontari, lasciò la città. La ricreazione dei poeti e dei guerrieri era terminata.