Jean Marie Le Pen, una vita spericolata e un destino francese
Jean Marie Le Pen, il “Menhir” della politica transalpina, è partito. A 96 anni. Una vita turbolenta e fascinosa, contradditoria e unica. Straordinaria. Tutto ebbe inizio negli anni ’50 quando l’orfano bretone di un pescatore trasformatosi in leader studentesco a Parigi, divenne il più giovane deputato dell’Union Fraternitè Française, il movimento di Pierre Poujaude, il mitico tribuno (aggressivo nei termini, moderato nei programmi e, dato non trascurabile, ex resistente e lontano dai temi neofascisti) della Francia profonda della IV Repubblica.
Interpretando magistralmente l’insofferenza verso le esose politiche fiscali governative di commercianti, artigiani ed agricoltori e i paralleli turbamenti della decolonizzazione — le guerre d’Indocina e Algeria, due sanguinosi conflitti a cui Le Pen partecipò come volontario paracadutista — il volitivo “cartolaio di Saint Céré” conobbe un breve periodo di notorietà e un indubbio successo politico (nel 1956 il suo movimento fu premiato da ben 2,4 milioni di voti e 52 deputati), ma la sua esperienza si chiuse nel maggio del 1958 con il ritorno al potere di Charles de Gaulle e l’instaurazione della Quinta Repubblica. Il generale, forte del suo carisma e di un improvviso benessere (il “miracolo economico “francese dei primi Sessanta), cancellò rapidamente dal proscenio Poujade e i suoi seguaci. Compreso Le Pen, che da folgorante promessa della politica nazionale si ritrovò, con sua grande amarezza, confinato nel marginalismo, nell’ombra.
Seguirono anni d’amarezza e di solitudine, punteggiati da una serie di fallimenti politici (la disastrosa campagna presidenziale nel 1965 per Tixier Vignancour) e alcune disavventure economiche; poi, dopo la tempesta del maggio 1968, l’ex deputato decise di rimettersi in gioco e accettò, dopo lunghe esitazioni, l’invito degli ultrà nazionalisti, da tempo in cerca di legittimazione e di un leader finalmente presentabile. Fece “bingo”. Con facilità, il pirotecnico Jean Marie — considerato uno sciovinista gallico, un uomo d’ordine ma anche un moderato non compromesso con i fantasmi di Vichy — s’impose su una galassia magmatica, generosa ma politicamente sterile e costruì, sulle ceneri di Ordre Nouveau e di altri gruppi e gruppuscoli, il Front National di cui divenne a partire dal 1973 il capo assoluto e indiscusso.
Una volta ricevuto da Giorgio Almirante il permesso d’usare la fiamma missina (assieme a qualche modesto contributo finanziario e la stampa dei primi manifesti), le Chef cercò faticosamente di trasformare lo scombinato cartello di estremisti in una realtà politica di rilievo nazionale, posizionandolo (con gran disappunto degli attivisti di O.N che confluirono nell’effimero Parti de Forces Nouvelles) su posizioni di destra nazional-conservatrice, caratterizzate da un anticomunismo viscerale e proteste fiscali (l’immigrazione rimase a lungo un tema secondario).
Gli inizi furono disastrosi: alle legislative del 1973 l’FN raccolse solo l’0,52 per dei voti, alle presidenziali del 1974 (dopo la morte di Georges Pompidou) Le Pen ottenne un misero 0,75 dei suffragi; non andò meglio alle legislative del 1978 (0,33). Pochi, pochissimi voti e tanto odio: nella notte del 2 novembre 1976 20 chili d’esplosivo fecero saltare in aria la casa parigina dei Le Pen, miracolosamente le tre figlie riuscirono a salvarsi e vennero ritrovate dopo ore tra le macerie. Un’esperienza terribile che Marine non dimenticherà mai.
Scorato Jean Marie fu sul punto di chiudere baracca ma, incredibilmente, la fortuna bussò alla sua porta: Hubert Lambert, ultimo erede di una potente dinastia industriale, morendo lasciava tutti i suoi beni al presidente del Front. Diventato improvvisamente milionario, l’ex paria della politica ritrovava così fiducia e mezzi per rilanciare la sfida.
Finalmente, agli inizi degli Ottanta la svolta. Dopo essersi sbarazzato degli ultimi estremisti, Le Pen tentò nuove strade; per primo comprese, a differenza dei partiti tradizionali, che l’aumento della disoccupazione interna e la parallela crescita dell’immigrazione costituivano una potenziale bomba sociale. Alle amministrative del 1982, con una campagna impostata sullo slogan “2 milions de chomeurs, c’est 2 milione d’immigrés de trop” (due milioni di disoccupati, sono 2 milioni di immigrati di troppo), il Front ottenne i primi successi: al XX° arrondissement di Parigi Jean Marie conquistò l’11,3 % dei voti, poi a Dreux il candidato Jean Pierre Stirbois (uno dei pochi intellettuali del FN, prematuramente deceduto) prese il 16,7 e , a novembre, a Aulnay-sous–Bois, feudo storico del PCF, il Front conquistò il 10. Alle elezioni europee dell’anno successivo il partito ottenne 2.210.299 voti, l’11 % e dieci deputati. Un salto strabiliante, dall’irrilevanza al “fenomeno Le Pen”. A sigillare l’affermazione vi fu la formazione a Strasburgo del gruppo delle Destre Europee a cui aderirono, oltre ai francesi, i cinque eurodeputati del MSI-DN, il rappresentante dell’EPEN greco e, più, tardi un deputato irlandese del Partito Unionista.
Nel 1986, François Mitterrand, per arginare l’avanzata dei gollisti, impose una riforma proporzionalista alle legislative e aumentò il numero dei deputati, permettendo così al Front National di conquistare 35 seggi all’Assemblea Nazionale. Una vittoria importante ma incompleta e, alla fine inutile. Negli anni, malgrado le percentuali importanti ottenute dai lepenisti nelle varie consultazioni, l’oligarchia francese — un complesso politico, economico e mediatico chiuso e assolutamente trasversale — ha saputo creare un muro di d’odio viscerale attorno al FN. Sull’onda di una martellante campagna giudiziaria-mediale Jean Marie si è ritrovato presto isolato e demonizzato e, una volta in più, ai bordi della grande politica. Niente alleanze, nessuna prospettiva governista. Porte chiuse ovunque. La “diabolisation”.
Una chiusura ermetica a cui il presidente frontista reagì spesso malamente, con provocazioni più o meno pesanti e frasi ad effetto — rimane tristemente celebre la pessima battuta sulle camere a gas considerate “solo un dettaglio della storia” —, o con accelerazioni mediatiche sorprendenti come quando, nel novembre 1990, volò in Iraq per recuperare da Saddam Hussein 55 ostaggi francesi. In realtà, secondo i commentatori più attenti, le Chef si sempre è accontentato del suo feudo e del suo clan: genitore e fondatore, star e motore, egocentrico e dispotico, visionario e anticipatore, cassiere e pagatore, sole e luna. Con un limite preciso. Jean Marie non era Jacques Doriot, neppure Raul Salan e tantomeno De Gaulle, Jean Marie non ha mai voluto conquistare il potere. Negli anni l’uomo ha preferito rappresentare i sentimenti di milioni di francesi arrabbiati, essere bandiera e spauracchio, divertendosi — poichè è un rompicoglioni patentato — a far arrabbiare i potenti e a scandalizzare la rive gauche. Nulla di meno, nulla di più. Mitterrand, uomo di mondo che ben conosceva il personaggio, considerò il dispettoso frontista mai come un nemico ma, piuttosto, come una sponda utile e un interlocutore nascosto per i suoi giochi contro l’odiato Chirac.
Inevitabilmente, il giocattolo ha più volte rischiato di rompersi. Nel 1998, dopo la condanna di Jean Marie a due anni d’ineleggibilità per aver aggredito una candidata socialista, Bruno Megrét, allora numero due del FN, tentò di pensionare l’ingombrante leader e aprire una politica delle alleanze con i gollisti del RPR. Un’illusione. Con determinazione e spietatezza l’anziano presidente riprese in mano le leve del potere interno, cacciando l’ex delfino e i suoi amici (compresa la figlia Marie Caroline), per rilanciare poi una durissima campagna sui temi della sicurezza e della “preferenza nazionale”. Una scelta di corto respiro eppure pagante. Il 21 aprile 2002, “l’impresentabile” conquistava il 16,86 dei voti alle presidenziali eliminando il candidato socialista ma lacerando in profondità la Francia. Ma ancora una volta si trattò di una vittoria di Pirro. L’astuto Jacques Chirac, candidato del RPR all’Eliseo, rifiutò ogni confronto con l’avversario (compreso il tradizionale dibattito televisivo alla vigilia del secondo turno) per presentarsi come l’uomo-simbolo dei valori repubblicani e democratici contro la “barbarie nazifascista” e il suo repellente mostro. L’ultima fase della campagna si trasformò in vera e propria crociata mediatica e in uno psicodramma collettivo — con violenti riflessi di piazza — che travolse ogni ambizione frontista. Quattro francesi su cinque (l’82,21 %) bocciarono Le Pen.
L’anno dopo, sconfitto, indebitato, criminalizzato ma non domo, il “Menhir” decise di riposizionare in qualche modo il malconcio partito, scassato dalle scissioni e dalle sconfitte, puntando questa volta su Marine, la beniamina di famiglia, l’unica delle figlie che gli era rimasta accanto e che aveva saputo affrontare (con successo) le sfide in TV. Al congresso di Nizza dell’aprile 2003, il babbo incoronò la sua bionda bimba — che aveva gestito parte della comunicazione della campagna delle presidenziali, suggerendo (spesso inascoltata) al babbo un profilo “soft” e innovativo — a vice presidente del Front. Una decisione pesante che scontentò già da allora i “puri e duri”, gli intransigenti e i megretisti superstiti, ma Jean Marie riuscì una volta di più ad imporsi. Con buone ragioni. La giovane donna era reduce da una difficile campagna nel Nord della Francia — le Pas de Calais, terra di miniere chiuse, fabbriche abbandonate, comunisti arrabbiati e delusi — e aveva raccolto uno strepitoso quanto imprevisto 32,3 per cento. Non fu eletta, ma tutta la Francia si accorse di lei. Era nata una stella.
Da allora Marine, la parigina benestante e gaudente, rimarrà per sempre legata a quel paesaggio desolato, a quei francesi dimenticati, schiacciati, umiliati dalle élites, dai potenti. Di destra e sinistra. Ma non solo, nelle lande del settentrione francese Marine iniziò ad elaborare l’idea del superamento delle vecchie categorie destra-sinistra, la critica sempre più serrata sulla globalizzazione e i suoi registi e maturare uno sguardo diverso verso gli immigrati veramente integrati, i “francesi per scelta”.
La vera rottura con il passato avvenne nel 2011 con il congresso di Tours — il primo congresso “vero” della storia del FN e, quindi, inevitabilmente lacerante — in cui il patriarca della Droite nationale impose la sua bimba alla guida del movimento. Non fu cosa facile: gli oppositori interni (il 32,5 votarono per il deputato europeo Bruno Gollnisch e il 23,5 si astenne) contestarono pesantemente la scelta familiare. Con veemenza. Sulla stampa nazionalista (“Rivarol” in primis) e sui siti “nostalgici” fu subito un fiorire di dimissioni, critiche e lamentele contro il vecchio capo — talvolta paragonato, massima ingiuria per i frontisti storici, al nerissimo e cattivissimo “papà Doc” Duvalier, il dittatore di Haiti— e una mitragliata d’improperi si levò verso la sua bionda erede.
Ma il “grande fossile” non si scompose e a Tours — per la prima volta in platea — ascoltò apparentemente compiaciuto i discorsi decisamente innovativi (almeno per le abitudini del milieu) ed applaudì la presentazione della nuova équipe dirigente, “les gars de la Marine”. Sul palco salirono volti nuovi, giovani, professionisti, immigrati integrati e ipernazionali, tante donne, ma pochi “pieds noirs” e nessun “soldato perduto” d’Indochina e Algeria. Una trasformazione semantica ed antropologica. Attenzione. La svolta congressuale di Tours e la conseguente rottura con antiche frequentazioni ed abitudini, non fu per i Le Pen un “tradimento” o un’inversione di marcia. Anzi, rappresentò un “ritorno a casa”, un biglietto verso quel social-populismo post ideologico — insomma, la riedizione aggiornata della lezione di Pierre Poujaude — che trascende le categorie destra-sinistra. E fu così che il vecchio Front divenne il Rassemblement Nationale a trazione “marinista”, oggi il primo partito di Francia.
Ma non tutte le ciambelle riescono col buco e c’è sempre “qualcosa” che rovina i finali. Nel tempo i rapporti tra padre e figlia si erano man mano raffreddati, per poi peggiorare irrimediabilmente. Secondo voci vicine al clan — non sappiamo se la vicenda è vera, ma di certo è verosimile — , fu fatale una convivenza forzata, quando, a causa di un banale incidente domestico — un incendio in cucina — Jean Marie e la sua seconda moglie furono costretti a trasferirsi da Marine; in quei tempestosi giorni l’invasivo patriarca cercò di “rimettere in riga” figlia e nipoti nel segno della sua assoluta primazia clanica, politica e finanziaria. Nulla di nuovo sotto il sole: ancora una volta tutto si giocava attorno ad amore, gloria, gelosia, rivalità, potere e denaro. Insomma, ti abbraccio per strozzarti meglio… Jean Marie però sottovalutò il carattere roccioso della padrona di casa (la mela non cade lontana dall’albero…) e fissò così una spaccatura inesorabile e mai ricomposta.
Di sicuro, nella primavera del 2015 il genitore, sempre più insofferente del “nuovo corso”, ritornava provocatoriamente sulla polemica sulle camere gas — per lui sempre un “dettaglio della storia” — ed elogiava l’operato del maresciallo Petain, il controverso simbolo della collaborazione con la Germania nazista. La classica goccia nel classico vaso. La presidentessa aprì un procedimento disciplinare contro Jean Marie e, pochi giorni dopo, l’Ufficio politico sospendeva il “presidente onorario” dalla sua carica. Le Chef, furente, si appellava allora alla mai amata magistratura che congelava il provvedimento, ma il 20 agosto 2015 il partito congedava per sempre il suo fondatore. Si chiudeva così, tra carte bollate e avvocati, una lunghissima vicenda politica ed umana, contraddittoria quanto appassionante.
Jean Marie, il “Menhir”, non ha mai perdonato l’affronto e sino al suo ultimo giorno ha mantenuto le distanze (usiamo un eufemismo…) con Marine e le sue sorelle. Ora il silenzio è calato e forse la rissosa famiglia riuscirà a ritrovare un’unità nel ricordo dell’ingombrante, divisivo ma, sotto sotto, sempre amato patriarca.