I Mondiali 2014 saranno ricordati per l’ennesima figuraccia internazionele dell’Italia, per il Brasile «asfaltato» dalla Germania e le conseguenti lacrime di David Luiz, per la furbata di Louis Van Gaal che nei quarti di finale ha cambiato il portiere dell’Olanda per vincere ai rigori (scelta non ripetuta, sfortunatamente contro l’Argentina). Ma i Mondiali 2014 saranno anche ricordati come la prima grande sperimentazione «a tutto campo» del social media advertising. Tutte le grandi multinazionali, coinvolte dal business della palla rotonda, si stanno cimentando in annunci mirati nelle tweetline o nelle singole home page di Facebook. Non sempre, però, le major sembrano comprendere appieno lo spirito della nuova comunicazione. Ecco perché Wall (che è molto più appassionato di calcio rispetto a Street) ha pensato di farsi una chiacchierata con Giulio Ceppi architetto  fondatore di Total Tool, società di visioning e design strategy.

Wall: «Ritengo che le grandi aziende non abbiano ancora capito che i social media entrano in un ambito molto più personale rispetto alla tradizionale pubblicità, anche intesa come campagna istituzionale».

Ceppi: «Concordo pienamente nell’affermare che l’uso di social media da parte di una marca è molto diverso dall’uso degli stessi da parte di un individuo. Chiaro che i brand si sono avidamente e rapidamente appropriati di social media come Facebook, Twitter o Instagram, ma non sono persone od individui, sono appunto marchi».

 

Wall: «L’ironia della Barilla dopo l’eliminazione con l’Uruguay mi ha molto irritato (poi i soliti strateghi della comunicazione hanno detto che è una trovata geniale, a me non sembra). Lo stesso è successo alla compagnia olandese KLM che ha preso in giro i messicani dopo la sconfitta: si è beccata la risposta piccata di Aeromexico, il “vaffa” della popolare star Gael Garcia Bernal e ha cancellato il tweet. Nike, invece, è rimasta – sempre secondo la mia personale opinione – indietro agli anni 80- 90: dopo ogni partita pubblica un post (e un tweet) nel quale celebra i risultati della squadra vincente sponsorizzata. Sicuramente funzionale, ma molto antico.

Ceppi: «Il social è il luogo del narcisismo, dell’ironia, dell’esagerazione, tutto in chiave molto personale e soggettiva. Per una marca è difficile adattarsi a questo livello di comunicazione, se non a rischio di fare autogol mostruosi, divertendo  qualcuno, ma irritando altri. Infatti per quanto le marche tendano oggi a voler comportarsi come persone, a seguire criteri etici, stili di vita, atteggiamenti non da marketing, ma da psicologia e sociologia, restano tuttavia un insieme astratto di valori, un programma teorico. Non sono persone, anche se vorrebbero esserlo, esserti amiche e confidenti. Quindi l’uso dei social media (basterebbe la parola, appunto) per loro è perdente, se cercano di comportarsi da “persone”, svelando appunto di non esserlo. Diverso se Giorgio Armani in persona usa Facebook o se Giovanni Rana twitta direttamente, anche se poi quanto dicono o fanno andrebbe ad impattare sulla loro azienda, inevitabilmente (vedi la recente intervista di Guido Barilla, appunto). Quindi non mi sorprende che gli esempi citati  di KLM o Barilla siano stati, per stare a tema, degli autogol clamorosi».

Wall: «Invece, mi è piaciuta molto l’iniziativa “Cityrunners Milano” di Adidas. Hanno spulciato i social cercando gente che si faceva i selfie facendo jogging o che utilizzava l’app Runtastic. Li ha contattati via mail invitandoli a far parte di una squadra. Coloro che hanno accettato hanno avuto in omaggio delle scarpe personalizzate da running e sono stati inseriti in un programma di allenamento con personal trainer, dietologo-nutrizionista e mental coach per partecipare alla mezza maratona della Milano City Marathon in modo che potessero sostenere un percorso di 10 kilometri».

Ceppi: «Mi piace invece segnalare come qualcuno abbia approfittato in maniera assolutamente smart e virale, direi da social media, anche se passando sulla creta stampata, quando il Washington Post ha titolato a piena pagina “Eataly!”  a commento del morso di Suarez a Chiellini e molto astutamente quelli di Eataly hanno riportato la pagina sui quotidiani nazionali, aggiungendo il claim che “Tutti mangiano carne italiana”. Questa è ironia! E dimostrazione che nel Made in Italy (potremmo ribattezzarlo oggi come “Mad in Eataly” – ma Farinetti ci paga poi una royalties…) lo humor e l’ironia sono una parte importante, che non dobbiamo perdere e che forse altri non sono poi tanto bravi ad usare ed interpretare, quando si parla di grandi brand: forse i nostri Big Brand (da Armani, passando per Ferrari fino a Versace) a volte potrebbero anche prendersi un po meno sul serio e scendere dal piedistallo dove tanto amano collocarsi, spesso con un eccessivo autocompiacimento».

 Wall & Street

Tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , ,