«Camusso e Landini vivono nella preistoria»
Che bel bacio quello tra il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il leader della Fiom, Maurizio Landini, alla manifestazione romana di Piazza del Popolo lo scorso 28 marzo! Sembrava di rivivere veramente gli anni ’70! Il numero uno dei metalmeccanici ha lanciato una piattaforma politica, la cosiddetta «Coalizione sociale» per incalzare la politica sui temi più cari ai rappresentanti dei lavoratori: abolizione del Jobs Act (cioè ripristino in toto dell’Articolo 18 e del divieto di licenziamento senza giusta causa), maggiore tutela per le fasce deboli, investimenti pubblici e aumento delle tasse sulla ricchezza.
Ma quel bacio era anche una forma di ipocrisia come quelli che Leonid Breznev stampava in bocca ai presidenti dei satelliti dell’Urss, memorabile quello con il tedesco orientale Eric Honecker. La partita che il sindacato di sinistra sta giocando dopo le sconfitte sul suo terreno di battaglia, cioè il lavoro, è quello per riguadagnare una visibilità politica in grado di condizionare i partiti o comunque quelle correnti, come la minoranza Pd, sensibili al richiamo operaista. Ed è qui che cominciano i dolori perché nessuno vuol cedere il comando all’altro. A partire, da Camusso che non vuol sentirsi subalterna al segretario di una federazione che fa parte del suo sindacato. Soprattutto perché Camusso ha una sua proposta politica. «Basta con l’assurdo gioco dell’oca su cui si sono basate le ultime sette leggi di stabilità, si tagliano le risorse, diminuisce la domanda, non crescono i consumi, il problema non si risolve e si deve ricominciare. Purtroppo anche l’attuale Def (Documento di Economia e Finanza) sembra seguire questo schema, continuando a sostenere la necessità di tagliare la spesa pubblica, non comprendendo che la crisi è della domanda e non dell’offerta», ha dichiarato di recente sostenendo che «si dovrebbero innanzitutto trovare nuove risorse, decidere come investirle e poi fornire gli strumenti di politica industriale necessari per superare quello schema, ormai obsoleto, in base al quale il pubblico dismette e il privato compra e smantella».
Diciamo che rispetto a ciò che si affermava negli anni ‘7o Camusso non sembra aver compiuto grandi passi avanti: più spesa pubblica, più salario, meno iniziativa privata, più controllo pubblico dell’economia. E Landini che cosa dice? Sostanzialmente, come lo ha ben interpretato Il manifesto, che «il sindacato da solo non basta nel momento in cui Renzi è determinato a cancellare tutti i corpi intermedi, agevolando così il processo di rivoluzione dall’alto in corso nell’Europa dell’austerità. Il suo è un deficit di rappresentanza, e di potere sociale, che va recuperato facendo coalizione con i mondi del lavoro non dipendente e precario, oltre che nella società». Insomma, secondo Landini è meglio che il sindacato si faccia anche un po’ partito visto che da solo ha perso tutte le sue ultime battaglie. Il discorso, dal punto di vista logico e anche strategico, non fa una piega: meglio allearsi, coalizzarsi, aggregarsi se da soli non si riesce a essere incisivi. Camusso è invece una strenua sostenitrice dell’autonomia sindacale, cioè dell’indipendenza del sindacato da qualsiasi organizzazione politica (per quanto la Cgil con l’universo della sinistra abbia sempre avuto un rapporto privilegiato).
La domanda che però vogliamo porvi è un’altra e forse molto più ingenua. Ma c’è bisogno veramente di un sindacato che fa politica quando il suo primo obiettivo dovrebbe essere solo quello di siglare contratti vantaggiosi per i lavoratori? Affidiamo la risposta ad Angelo Pasquarella, amministratore delegato di Projectland ed esperto di sociologia del lavoro.
«Perché i sindacati oggi ci appaiono come un mondo conservatore, resistente e ancorato al passato? Le moderne società non hanno forse bisogno di forme che aggreghino i lavoratori che fornisca loro servizi e che li rappresenti? Ancora una volta siamo di fronte ad un fenomeno culturale: il sindacato è infatti oggi l’espressione delle sue radici culturali di ieri. L’affermazione e il consolidamento del sindacato è avvenuta negli anni Cinquanta e Sessanta quando ha contribuito senza dubbio a migliorare le condizioni dei lavoratori e anche a stimolare la crescita economica. Il problema sta nel fatto che il contesto è oggi profondamente cambiato. Nei momenti di turbolenta crescita economica infatti è prioritario, per i lavoratori, ripartire la ricchezza e secondario preoccuparsi della sua generazione. Il valore viene creato da un sistema in espansione. Si tratta solo di stabilire come viene diviso. In questo contesto le istanze sociali nel mondo del lavoro sono necessariamente legate ad una sorta di contrapposizione che può sfociare anche in duri scontri. L’arma dello sciopero è peraltro efficace perché reca un danno consistente, in quanto può impedire di soddisfare una domanda di prodotti che permane sostenuta. Le lotte operaie sono state addirittura utili anche per sostenere la domanda interna, attraverso una diversa ripartizione del valore, che ha diffuso benessere ed è stata funzionale allo stesso capitalismo».
«Se applichiamo però una politica sindacale spartitoria in un momento in cui vi è contrazione economica e il problema è invece quello della generazione di nuova ricchezza, otteniamo le storture che sono sotto i nostri occhi e che portano a ritenere il sindacato inutile o dannoso per l’intera società. Quando un’impresa (fatta di un sistema imprenditoriale, organizzazione, esperienze, cultura e relazioni con clienti, fornitori, fisco, territorio e lavoratori) sparisce, non sparisce solo un pezzo di essa (il cosiddetto padrone), ma sparisce tutto il complesso di interessi di cui l’azienda rappresenta il punto nodale. Il danno sociale è enorme».
«Se il sindacato, nei momenti economici favorevoli, può e deve avere (nell’interesse di tutti) un atteggiamento orientato alla contrapposizione in funzione spartitoria, potendosi disinteressare di come il valore viene generato, in periodi in cui occorre generare nuova ricchezza è esattamente l’opposto. In simili momenti l’interesse dei lavoratori è orientato al come si possa concorrere al rilancio e al rinnovamento dell’azienda: dalla logica spartitoria si passa a una logica di sviluppo. Le oscillazioni della domanda, il sorgere di opportunità conseguenti all’apertura di nuovi mercati, il modo di superare un momento di crisi o come garantire l’esecuzione di una commessa non sono, in periodi come quello che viviamo, semplicemente un problema del management, ma riguardano l’insieme dell’azienda e anche e soprattutto chi ci lavora. I problemi non sono solo di una parte (“saranno ben fatti dell’imprenditore”) ma di entrambe e il ruolo del sindacato, in questa situazione, è quello di diventare propositivo e assumersi responsabilità nel rilancio dell’impresa favorendo nuove e più flessibili forme di gestione ed esecuzione del lavoro. Ancora una volta suggerimenti ci vengono dalla Germania, ad esempio con i molti casi che abbiamo osservato nel settore metalmeccanico. È questo il salto culturale che anche l’Italia si aspetta e anche un’occasione storica di rinnovamento per il sindacato».
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