Leotta

I recenti casi di Tiziana Cantone e Diletta Leotta dimostrano ancora una volta che Internet non dimentica e la sua memoria può avere conseguenze a breve, medio e lungo termine. «Nella vita ognuno è più o meno libero di fare quello che vuole, ma deve essere consapevole delle conseguenze, che purtroppo i più non sono in grado di cogliere», dice Alessandro Curioni, consulente in materia di sicurezza e presidente di DI.GI. Academy, che torna a spiegare su Wall & Street come i problemi di sicurezza informatica ormai impattino sulla nostra vita quotidiana.

Alessandro Curioni«In primo luogo – sottolinea – è bene cercare di capire cosa significa per la Rete non dimenticare e comprendere che per ritrovarsi “in piazza” non c’è alcuna necessità di scomodare gruppi hacker o criminali informatici». I nostri comportamenti sono più che sufficienti a mettere a repentaglio la nostra privacy quando si dimentica che Internet ha più di una memoria.

Ma quali sono, nello specifico,  le «memorie» di Internet?Essenzialmente sono tre:

  1. i motori di ricerca
  2. i social network
  3. i sistemi di messaggistica.

I primi sono relativamente pericolosi. Google & Co. si limitano a mostrare quello che trovano, quindi nel tempo tendono a dimenticare, dismettendo i contenuti più vecchi a favore di quelli nuovi. Tuttavia grazie a quella che viene definita «copia cache», una sorta di istantanea della pagine che risale all’ultima volta che i loro sistemi di indicizzazione l’hanno visitata, è possibile fare una breve salto nel passato per scoprire cosa era conservato prima che non fosse più visibile.

I social sono più persistenti perché le informazioni possono essere replicate all’infinito tra gli infiniti account (oggi si parla di circa 6 miliardi) che costituiscono questo universo. Un’informazione, sia essa un’immagine o un testo, può apparire e scomparire continuamente in questo mondo, con il risultato che una sua rimozione definitiva può essere considerata pressoché impossibile.

Praticamente letali, almeno in termini di diritto all’oblio, sono i sistemi di messaggistica. Le informazioni finiscono in un dispositivo privato e la loro rimozione e non diffusione dipendono esclusivamente dal proprietario.

«La combinazione di queste tre memorie ci permette di affermare con assoluta certezza che nel momento stesso in cui schiacciamo il tasto “invio” abbiamo perso il controllo di quanto spedito e dobbiamo considerare certo che primo o poi esso potrebbe riemergere dagli abissi della Rete», osserva Curioni.

Il secondo aspetto riguarda l’apparente incapacità di gran parte del genere umano di rendersi conto quanto sia diventato importante tutelare la propria privacy nella società dell’informazione, possibilmente non a posteriori, ma preventivamente. Tutte le volte che immagini “intime” o affermazioni fatte in privato diventano di dominio pubblico sul web, ecco che partono le denunce alla polizia postale. «Giustissimo, ma se invece provassimo a evitare di condividere tutto con tutti?», conclude l’esperto. Qualcuno penserà che non è il suo caso perché certe cose le fa circolare soltanto in un gruppo limitato di persone. Sbagliato perché on line non esiste il concetto di cerchia ristretta. Lo ha dimostrato anche un recente studio che ha distrutto la teoria dei sei gradi di separazione (tra noi e chiunque al mondo ci sono soltanto sei persone). Dopo l’avvento dei social media i gradi sono diventati quattro, molto, anzi troppo pochi.

Wall & Street

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