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La scorsa settimana il premier britannico Theresa May ha dato il via libera, dopo una sospensione di un paio di mesi (a causa del caos politico scatenato dalla Brexit, al progetto Hinkley Point, una megacentrale nucleare da 18 miliardi di sterline (21 miliardi di euro) che sarà realizzata da un consorzio franco-cinese guidato da Edf e partecipato al 33% da China General Nuclear (Cgn), mentre la tecnologia sarà fornita dalla transalpina Areva. Si tratta della prima centrale a essere costruita in Gran Bretagna da oltre vent’anni e fornirà al Paese il 7% della produzione elettrica consentendo di «pensionare» una quindicina di centrali a carbone con le loro emissioni inquinanti e, progressivamente, anche le centrali nucleari più antiche con tecnologie obsolete. Potendo contare sul petrolio del Mar del Nord nonché sulle rinnovabili come l’eolico e l’idroelettrico, Londra ha scelto consapevolmente il nucleare. Infischiandosene tanto dell’ambientalismo talebano del «no a prescindere» quanto del nazionalismo economico che temeva un’eccessiva ingerenza cinese anche in una materia delicata come la politica energetica. In questo breve video del Guardian, il ministro britannico dell’Industria, Greg Clark, spiega bene che le valutazioni costi-benefici hanno indotto a persistere nel progetto iniziale. Se il cronoprogramma sarà rispettato, Hinkley Point entrerà in funzione nel 2025. Gli accordi, inoltre, prevedono che la joint venture Edf-Cgn realizzi almeno un altro impianto in Gran Bretagna.

 

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Londra non è sola in Europa perché Finlandia, Francia e Slovacchia hanno già dato l’ok alla costruzione di nuovi impianti, mentre Bulgaria, Lituania, Repubblica Ceca e Romania hanno progetti per nuovi reattori.

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Come si può ben vedere, il nucleare è la seconda fonte di produzione di energia elettrica nel nostro continente dopo i combustibili fossili. Nel 2014 ha pesato per oltre il 27% sul totale prodotto. Solare ed eolico insieme totalizzano poco più del 10% della produzione elettrica.

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Quest’altro grafico, invece, evidenzia il grado di dipendenza di ogni singolo Paese europeo dalle importazioni per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. L’Italia si piazza al di sopra della media (52%, 60% per l’area euro) con il 75 per cento. Francia e Gran Bretagna si attestano al 45% ciascuna, mentre Bulgaria, Repubblica Ceca e Svezia sono in area 30 per cento. Il nucleare incide? Sì, anche se bisogna considerare la piccola eccezione danese che, producendo circa il 40% tramite eolico e potendo contare sul geotermico, ha un basso grado di dipendenza dalle importazioni. In Danimarca non ci sono centrali nucleari, ma la questione sull’opportunità di avviare un programma è sempre tema di dibattito, senza pregiudizi. Perché parliamo di «eccezione» per la Danimarca? Perché una dipendenza dall’import maggiore dell’Italia per soddisfare i fabbisogni energetici è registrata dall’Irlanda, Paese con zero nucleare.

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Come si vede da questo grafico, passato l’effetto emotivo causato dall’incidente alla centrale giapponese di Fukushima, la produzione di energia elettrica da fonte nucleare nel mondo è progressivamente tornata a crescere. L’utilizzo dell’atomo potrebbe crescere del 56% entro il 2030, secondo le ultime previsioni dell’International Atomic Energy Agency (Iaea). D’altronde, nel mondo ci sono 447 centrali nucleari e quasi tutti Paesi principali hanno considerato l’opzione (globalmente ce ne sono circa 60 in costruzione). LItalia ha rinunciato per ben due volte tramite due referendum sull’onda dell’emozione (nel 1987 a un anno da Chernobyl e nel maggio 2011 a pochi mesi dallo tsunami in Giappone) e della politicizzazione delle consultazioni. Governi e parlamenti si sono spaventati. Strano, però, che altrettanto chiari pronunciamenti popolari siano stati negletti: quello antico sul finanziamento pubblico ai partiti (recepito solo nel 2013 causa crisi ed effettivo nel 2017) e quello sulla pubblicizzazione delle risorse idriche (in questo caso si può dire che sia rimasto per fortuna lettera morta). Insomma, in Italia considerare il nucleare un tabù fa comodo tanto a destra quanto a sinistra. Tant’è vero che pochi media hanno parlato di Hinkley Point. Forse varrebbe la pena anche di ragionare sull’opportunità di far decidere persone impreparate sulle politiche energetiche e sottrarre ai referendum questa materia, ampliando il divieto costituzionale che vale solo per le leggi finanziarie. Ma questo è un altro discorso…

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Allo stesso, modo si può vedere come minore sia l’incidenza del nucleare sulla produzione energetica maggiore sia l’intenzione di sviluppare i programmi. Non è un caso che la Cina e l’India siano i Paesi che più stanno investendo su questa fonte energetica, mentre la crisi economica e politica del Brasile ha un po’ rallentato i tempi. Vogliamo guardare alla sola Europa? Allora, è necessario confrontare il grafico sopra con un’altra tabella.

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Inferire un nesso causale tra utilizzo del nucleare e costo dell’energia elettrica per le famiglie sarebbe poco corretto visto che sull’energia in tutti i Paesi gravano accise e altre imposte che ne fanno salire il prezzo indipendentemente dal costo di produzione, ma di sicuro si può affermare che vi sia una correlazione abbastanza evidente fra ricorso all’atomo e prezzi bassi. Anche, in questo caso, Francia e Slovenia sono buoni esempi.

Zampini GiuseppePensate che vogliamo fare propaganda? Siete lontani anni luce dalla realtà. Anche se l’Italia decidesse oggi di ritornare all’atomo, occorrerebbero più di 25 anni per vedere un reattore in funzione. Anzi ne servirebbero forse cinquanta, come ha detto l’amministratore delegato di Ansaldo Energia (società italiana che esporta tecnologia per reattori in tutto il mondo; ndr), Giuseppe Zampini. «Non ritengo che in Italia sarà possibile avere il nucleare prima delle prossime due generazioni. L’ultimo referendum ha affossato la speranza di vederlo a breve. Forse riusciremo a parlarne nel prossimo decennio».Questo perché sia l’iter progettuale (la scelta della tecnologia richiede valutazioni approfondite) sia quello realizzativo (per costruire materialmente una centrale occorrono dai 7 ai 10 anni) non sono rapidi. Cerchiamo solo di parlare senza tabù e senza schemi precostituiti evitando luoghi comuni abusati tipo «Se accadesse un incidente nucleare in un Paese europeo, ne saremmo coinvolti e quindi tanto vale provare». Ogni scelta, infatti, deve essere consapevole e in Italia non c’è consapevolezza, come dimostra la storia che stiamo per raccontarvi. L’unica affermazione «politica» che si può fare è la seguente: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Russia e Cina sanno cosa vogliono e dove vogliono andare. L’Italia non può dire altrettanto: detto del «no» pregiudiziale al nucleare, vi sono anche quelli alle opere infrastrutturali (dalla Tav alle strade fino all’ultimo termovalorizzatore di provincia) e quelli ai complessi industriali (no alla produzione di laminati di acciaio perché la siderurgia inquina; ogni riferimento all’Ilva di Taranto non è casuale). Basta solo sapere che senza energia, senza industrie e senza infrastrutture non si va lontano. Se la maggioranza è d’accordo, il declino sarà solo una necessaria conseguenza. Basta leggere un semplice lancio di agenzia (non vi diciamo quale) sullo Ukip (il partito indipendentista britannico guidato fino a poco tempo fa dal vulcanico Nigel Farage) per rendervi conto di quanto sia infimo il livello raggiunto sulla materia

Diane James è il nuovo capo e il nuovo volto dello United Kingdom Independence Party (Ukip), movimento eurofobo, razzista, nuclearista

Per l’italiano medio – e anche per il giornalista medio – essere per il nucleare equivale a essere un razzista – e questa è un’offesa grave – o un anti-euro e si come l’opposizione alla moneta unica oggi causi molte censure da parte dei benpensanti. Il nucleare, perciò, è una questione antropologica e politica, nel senso che qualifica, purtroppo in negativo, chi prende posizione favorevole.

 

Calenda 02Qual è, invece, la situazione del dibattito dal punto di vista tecnico in Italia? Lasciamo la parola al ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda. «Se le previsioni sui tempi della procedura Vas e dell’approvazione del Programma nazionale di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi saranno rispettate, la pubblicazione della Carta si colloca tra il secondo e il terzo trimestre 2017». Così parlò il ministro la scorsa settimana durante un’audizione parlamentare sulla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) alla realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi che da oltre un anno il ministero tiene chiusa nei propri cassetti. Adesso c’è il referendum costituzionale, l’anno prossimo una nuova tornata di amministrative e poi la legislatura volgerà al termine. Sebbene i territori interessati corrispondano allo 0,08% del territorio, gli ambientalisti, i centri sociali, i No-Ilva, i No-Tav, i No-Autostrade e tutti gli altri «benecomunisti» (nel senso di difensori di ciò che ritengono bene comune contro il privato anche quando il privato significa più vantaggi per tutti) sono già pronti a scendere in piazza (tanto l’impegno contro l’atomo può sempre valere qualche benemerenza in questo Paese che funziona alla rovescia). Insomma, ora non si può proprio pubblicare. D’altronde, come si evince dalla dichiarazione burocratese resa in Parlamento, vi sono anche delle giustificazioni tecniche. La Sogin, la società pubblica che presiede alla realizzazione dell’impianto e si occupa del decommissioning delle centrali nucleari, ha un nuovo cda. Il presidente è Marco Enrico Ricotti, professore di impianti nucleari al Politecnico di Milano, e l’amministratore delegato è Luca Desiata, ex manager Enel. Entrambi sono competenti della materia, ma naturalmente, essendosi insediatisi in piena estate, stanno cominciando solo ora a conoscere la società. Tra gli altri tre componenti del cda c’è anche Alessandro Portinaro, sindaco di Trino Vercellese, sede di una centrale nucleare in fase di smantellamento. Nella sua prima intervista rilasciata al quotidiano piemontese La Sesia ha esordito così: «Tenterò di lavorare per far convergere gli interessi dei nostri territori e le azioni che Sogin deve svolgere. Le mie opinioni restano le stesse di sempre, sono antinuclearista». Praticamente il governo ha nominato un vegano in una società che si occupa di trasformazione delle carni bovine. Analogamente, è in corso la procedura di nomina del direttore dell’Isin (Ispettorato nazionale sicurezza nucleare) e già i grillini stanno protestando perché il designando Maurizio Pernice è un tecnico del ministero dell’Ambiente, esperto di inquinamento delle risorse idriche e non di nucleare. Infine, come detto da Calenda, bisogna approvare il Programma nazionale di gestione delle scorie e anche questo richiederà tempo. L’unica certezza, per ora, è che il Deposito nazionale sarà pronto per il 2026-2027, se va tutto bene. Soprattutto ci si continuerà ad appoggiare ai 23 siti di stoccaggio sparsi per l’Italia con tutti i problemi che questo comporta. A partire da quelli economici (costano 110 milioni all’anno), ma tanto paga Pantalone, cioè tutti noi attraverso le bollette dell’elettricità.

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