Il lavoro svalutato
Oggi sul Giornale vi abbiamo parlato del paradosso tutto italiano del lavoro: retribuzioni più basse rispetto a molti competitor dell’area euro e ore lavorate annue più alte della media. Non è solo questione di tasse, ma anche del tipo di occupazione offerta in Italia. Evidentemente l’organizzazione del lavoro è ancora a elevata intensità di personale e, dunque, ogni produzione richiede tempo per essere effettuata. Vi sarebbe da approfondire anche il discorso legato alla qualificazione dei lavoratori che, generalmente, è un proxy delle retribuzioni, ma la contemporaneità e, soprattutto, la crisi ci hanno abituato anche a non interpretare questa correlazione come un vincolo assoluto. Le imposte danno solo il colpo di grazia ai salari, ma tutto quello che c’è a monte riguarda un altro tipo di discorso.
Approfondiamo, perciò, quello che sulla carta stampata abbiamo solo accennato. Questo è il grafico della produttività media oraria in Italia dal 2010 al 2015 calcolata sulla base del Pil a prezzi concatenati. Sulla base dei dati Istat, recentemente aggiornati, abbiamo considerato il prodotto interno lordo al netto dell’inflazione, il numero degli occupati, mentre le ore medie lavorate annue sono state ricavate dal database Ocse. Il risultato è quello che vedete nel grafico a fianco: la produttività media oraria è in flessione. Da un certo punto di vista è un percorso naturale: la diminuzione dell’occupazione ha più che compensato la flessione del prodotto interno lordo e negli anni di crisi più profonda la produttività è aumentata. Questo significa che il minor numero di persone rimaste al lavoro è stata più produttiva o, per dirla ancor più semplicemente, che le stesse cose sono state fatte con meno persone. Al contrario, quando si è registrata una «ripresina» nel 2014 e nel 2015 e l’occupazione è un po’ aumentata, la produttività è diminuita. Questo significa che ogni lavoratore, individualmente considerato, ha prodotto un po’ di meno. Il che ci porta alle constatazioni formulate nell’articolo odierno:
Ci sono lavoratori che producono pochissimo. Non si tratta solo di statali, ma anche di operai che rimangono al loro posto perché licenziandoli la stessa pmi che li impiega sarebbe costretta a chiudere.
Una disfunzionalità che si riverbera anche sulle dinamiche salariali e soprattutto sulla loro incidenza nella produzione. Questo grafico rappresenta la dinamica del Clup (costo del lavoro per unità di prodotto) dal 2010 al 2015. In teoria, sarebbe l’inverso della produttività ma, come vedete, la curva ha una tendenza ascendente. È espresso in decimali, ma si potrebbe usare anche una percentuale: vuol dire che il costo del lavoro è passato dal 44,5% della produzione a poco più del 46,2% in cinque anni. Dunque il «peso» del lavoro sui prodotti aumenta anche quando la produttività diminuisce. Un po’ dipende dal fatto che non abbiamo scelto le stesse grandezze per il calcolo. Abbiamo considerato il valore aggiunto (il plusvalore che la produzione aggiunge alle materie prime tramite l’impiego di salariati, di macchine e del capitale necessario per pagarli) e il numero dei lavoratori dipendenti anziché quello degli occupati in generale. La discrepanza può generarsi da questo anche se i due indici hanno dinamiche simili a quelle del Pil e del numero totale degli occupati. Ecco, dunque, perché possiamo parlare di paradosso e di lavoro svalutato. Salari non elevatissimi a fronte di molte ore lavorate determinano comunque un incremento dell’erosione dei margini di redditività da parte dei costi produzione.
Occorre, dunque, ripensare tutti i processi produttivi e la politica, che finora non ha contribuito fattivamente alla ricerca di una soluzione, farebbe meglio a tenersene fuori. Wall & Street vi hanno già fatto degli esempi raccontandovi la storia della progressiva riduzione del personale bancario. Allo stesso modo, vi abbiamo descritto le maggiori problematiche relative al tema della contrattazione aziendale e della remunerazione del lavoro. Questi grafici concorrono a dimostrare, semmai ve ne fosse bisogno, che il sistema produttivo italiano così com’è alla lunga non reggerà la sfida della competizione globale.
Wall & Street