L’emergenza Covid-19 sta cambiando e cambierà il mondo del lavoro. Negli ultimi mesi il termine «smart working» è diventato di uso comune, ma molti ritengono più appropriato parlare di «home working», cioè di un’operatività quotidiana confinata da remoto (quasi sempre dalla propria abitazione) e non dettata da una riorganizzazione del lavoro basata su obiettivi misurabili. Ne abbiamo discusso con  Franco Amicucci, Ceo di Skilla, e con Nicola Spagnuolo, direttore di Cfmt.

Si potrà tornare ai modi di produzione pre-pandemia?

Franco Amicucci: «Pensare di tornare ai modi di produzione prepandemia sarebbe come guidare ad alta velocità guardando sugli specchietti retrovisori per tutto il viaggio, ci fracasseremmo tutti!
Guerre, pandemie e rivoluzioni tecnologiche hanno sempre segnato delle svolte nella storia, perché hanno velocizzato processi che erano in atto, alcuni evidenti, altri latenti. Ora viviamo in contemporanea ben due di questi fenomeni della storia, la pandemia e la rivoluzione tecnologica. Il mondo del lavoro sarà diverso, milioni di persone in Italia e nel mondo saranno coinvolte in quel processo, descritto con la brutta parola re-skilling, cioè di riqualificazione perché quel lavoro non ci sarà più, ma ne sarà nato un altro e quello che c’era verrà fatto in un altro modo. Intanto, iniziamo a guardare al momento dove tutti ci sentiremo sicuri perché usciti dalla pandemia e ritornati alla vita normale. I settori più colpiti – ne cito tre: turismo, spettacolo e ristorazione – avranno un grande e veloce sviluppo rispetto agli altri settori, perché le persone vivranno qui momenti come liberazione, con una voglia incredibile di riprendere in pieno la vita. In tanti paesi d’Italia ci sono ancora le ricorrenze dei festeggiamenti della fine della peste nel tardo Medioevo. Per questo ora è importante sostenere questi settori, evitare le chiusure ed i fallimenti».

Nicola Spagnuolo: «Difficile dire quali saranno i cambiamenti che in futuro entreranno stabilmente nella vita economica e sociale di tutti noi. Ciò che appare certo è che sicuramente alcuni cambiamenti saranno stabilizzati all’interno di un nuovo paradigma. Ce lo dice la storia. I cambiamenti, tuttavia, hanno sempre bisogno di un percorso per cui con ogni probabilità quando usciremo da questa pandemia ci troveremo di fonte al compimento di alcuni processi evolutivi avviatisi nel corso degli anni, e in alcuni casi dei decenni, passati. Le pandemie da sempre hanno rappresentato, valutandoli col senno di poi, processi di accelerazione di cambiamenti già in atto. I cambiamenti nelle dinamiche produttive vi sono sempre stati a seguito delle grandi pandemie del passato ed è pertanto molto probabile che i cambiamenti nei modi di produzione si consolideranno nel nostro immediato futuro. Occorre però stare attenti a valutare i tipi di cambiamento che dovremo attenderci, evitando i facili abbagli di chi immagina un futuro paradigma partendo dall’esperienza di questi mesi in cui lockdown, restrizioni, paure, angosce, determinano comportamenti individuali e collettivi contingenti, frutto di reazioni emozionali e non di processi consolidati di cambiamento. Ad esempio, in questo periodo la produzione industriale sembrerebbe minata da una inevitabile contrazione dei processi di internazionalizzazione. Ecco, mi parrebbe assolutamente improbabile aspettarsi una stabilizzazione di questa contingenza poiché il processo di globalizzazione in atto farà sì che al termine della pandemia le aziende ricomincino a produrre dislocando siti produttivi in parti del mondo più convenienti e ricercando mercati di sbocco per i propri prodotti in mercati lontani e maggiormente proficui. Allo stesso modo l’accelerazione impetuosa delle tecnologie e del digitale a cui stiamo assistendo in questi mesi, produrrà nuovi cambiamenti nei modelli e nelle modalità di produzione industriale (si pensi ad esempio alla Intelligenza Artificiale). In ultimo, cambieranno le persone, le loro esigenze, le loro aspettative, i loro bisogni e i loro stili di vita a cui seguiranno cambiamenti adattivi delle produzioni di beni e servizi che non potranno essere gli stessi del periodo pre-pandemico».

Come è cambiato il lavoro dipendente con lo smart working?

A.: «È cambiato profondamente per quel 38% di lavoratori che possono fare smart working, secondo le stime del World Economic Forum pubblicate il 20 ottobre. Una pratica prima familiare ad una piccola quota di lavoratori è diventata improvvisamente di massa, con una grande differenza però tra lavoro privato e lavoro pubblico. Nell’azienda privata lo smart working ha avuto successo, le persone e le aziende hanno scoperto una migliore qualità della vita e, paradossalmente, una migliore produttività, almeno per la maggior parte dei casi. Questo è dovuto a competenze digitali ormai diffuse e soprattutto a modelli di organizzazione del lavoro che nel privato si basa su team interfunzionali autoorganizzati, con elevati gradi di autonomia lavorativa. Grandi organizzazioni si sono permesse di continuare il lavoro con decine di migliaia di persone in smart working senza interrompere il servizio fornito. Diversa la situazione della pubblica amministrazione, dove le competenze e la cultura digitale non sono ancora adeguate e quindi fortemente basate ancora sulla carta e l’organizzazione del lavoro è vincolata a catene burocratiche interconnesse dove ogni passo richiede una autorizzazione. In questo caso lo smart working ha spesso coinciso con sacche di improduttività e carenze di servizi offerti».

S.: «Anche qui occorre essere cauti nelle valutazioni: il lavoro dipendente cambierà probabilmente ma si tratta di capire in che direzione e con quale portata. Intanto, occorre non lasciarci abbagliare dalla situazione contingente che stiamo attraversando in questi mesi in cui più che di smart working, sarebbe più corretto di telelavoro. Perché in futuro si possa parlare di una affermazione profonda dello smart working occorre chiarire che esso è innanzitutto un nuovo approccio culturale rispetto al passato, in cui il controllo non è più sul lavoratore ma sul lavoro prodotto. Dobbiamo essere consapevoli che l’attività da remoto potrà essere davvero produttiva, efficace ed efficiente solo se sussistono una serie di condizioni e se una visione strategica collettiva sarà orientata a rimuovere vincoli e gap strutturali con i quali noi italiani dobbiamo fare costantemente i conti. L’Italia nel 2019 era al 24° posto tra i 28 paesi Ue (Regno Unito compreso) per velocità della connessione. Dietro di noi solo Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Facile conclusione: in Italia la rete è diffusa ma molto lenta. Già solo questo gap mi parrebbe non di poco conto. Il nostro gap di competenze digitali va colmato, in fretta, senza se e senza ma. Il punto però è che, se anche riuscissimo ad annullare il digital divide tutto italiano, siamo certi che lo smart working aprirebbe una nuova strade a nuove modalità di lavoro? Mi spiego meglio: la tecnologia è senza dubbio indispensabile, in quanto abilitante, ma non garantisce l’efficacia dei processi organizzativi orientati allo smart working che richiede invece un profondo ripensamento dell’organizzazione dei tempi, spazi e modi di lavoro e delle basi su cui si fonda la relazione tra lavoratore e impresa. L’ufficio diventerà un punto d’incontro indispensabile ma saltuario, mentre ognuno di noi sceglierà il luogo in cui lavorare in base alle proprie esigenze. Servirà un cambio culturale vero, profondo e radicale e aspetterei a ritenere di essere già pronti».

Lo smart working, secondo alcuni osservatori, ha acuito le differenze tra le classi sociali facendo emergere il divario tra chi ha un’occupazione che consente di lavorare da remoto e chi invece deve esporsi al rischio di contagio pena la disoccupazione. Cosa ne pensa?

A.: «È vero, questo del divario sociale è il problema centrale. Divario che si è manifestato anche all’interno di chi fa smart working, perché un conto è lavorare in una casa con ampi spazi, balcone e giardino, un conto in condomini con piccolo appartamento e famiglia numerosa. Ma è il lavoro operativo, che è comunque la maggioranza del mondo del lavoro, quello oggi a maggior rischio e che ha sulle proprie spalle attività che scopriamo fondamentali per la vita di ognuno. Il più esposto è certamente il personale sanitario, ma pensiamo a tutta la filiera alimentare, dall’agricoltura, ai trasporti fino ai negozi e alla grande distribuzione. Eppure sono i settori a più basso reddito perché finora non hanno avuto potere negoziale. Sarà uno dei grandi temi del post pandemia, perché la valorizzazione , anche economica, di questa area che sappiamo fondamentale per la vito di tutti noi, andrà presa seriamente in considerazione».

S.: «Temo che il problema dell’acuirsi del divario sociale possa andare ben oltre lo smart working, purtroppo. Non tutti sono stati colpiti allo stesso modo dai vincoli e dalle restrizioni necessariamente imposte. Alcune professioni hanno pagato un conto salatissimo mentre altre ne hanno risentito quasi marginalmente. Del resto, basta osservare le dinamiche che negli ultimi mesi hanno riguardato i vari settori produttivi della nostra economia: il settore della distribuzione organizzata del food ad esempio non ne ha certo risentito tanto quanto il settore turistico-alberghiero. La perdita dei molti posti lavoro, che ancora non è possibile stimare ma che purtroppo è facile prevedere, certamente causerà nuove difficoltà a nuove fasce di popolazione, fino ad oggi al riparo dai disagi economici e finanziari, seppure conducendo una vita attenta e parsimoniosa. D’altra parte, invece, ci saranno coloro che già in passato stentavano a trovare una occupazione stabile a causa di una quasi assenza di skills distintive. Per coloro non solo sarà complicato attraversare questa pandemia (si pensi ad esempio alle difficoltà di fare i necessari acquisti on line, o di adattarsi alle esigenze aziendali di uso dello smart working, o ancora di superare psicologicamente indenni la difficile di convivenza in case raccolte e tutt’altro che comode) ma sarà ancora più complicato riadattarsi alle nuove dinamiche che il prossimo paradigma socio-economico imporrà al mercato del lavoro, con il rischio di rimanerne ai margini. È difficile in questo momento prevedere gli impatti sociali di questa terribile pandemia, ma partendo dallo scenario appena delineato temo occorra costruire un sistema di welfare molto più pervasivo e inclusivo se si vorrà far fronte al disagio sociale che già oggi inizia ad affacciarsi tra le proteste di piazza sempre più numerose nelle città di gran parte del mondo».

Lo smart working ha due principali conseguenze. La prima è la reperibilità, più o meno forzosa, 24/7. Andrebbe, quindi, creato un nuovo statuto per chi lavora da remoto?

A.: «Credo che i vantaggi sui quali concordano ormai tutte le ricerche, siano nettamente superiori agli svantaggi che sono comunque emersi. Uno dei rischi maggiori emersi è la perdita di socialità, l’isolamento, soprattutto per le fasi di smart working al 100%. Questa difficoltà potrà essere sopperita in futuro con modalità miste di lavoro, in parte a casa in parte sul luogo di lavoro. La maggior parte delle organizzazioni sta andando in questa direzione. Il vantaggio che la maggior parte dei lavoratori ha dichiarato di aver trovato, è quello della flessibilità, della possibilità di autoregolare tempi di vita e di lavoro, andare verso la direzione di una rigida regolamentazione, ci porterebbe ad un modello di relazioni sindacali del passato. Quello che serve è una specie di “statuto valoriale”, un nuovo patto per il lavoro del futuro, basato da una parte sulla fiducia che l’impresa deve dare a tutte le sue persone e responsabilità da parte del lavoratore. Questo non si ottiene con le vecchie pratiche sindacali, ma con una nuova visione e un nuovo patto del lavoro».

S.: «Ad oggi gli innumerevoli contratti di lavoro fondano sul principio dello scambio tra tempo ed energie a fronte di una retribuzione.  Il nostro sistema è culturalmente molto legato al concetto del controllo visivo, in cui una maggiore presenza fisica sui luoghi di lavoro corrisponde ad una maggiore produttività. Si è propensi a premiare chi si vede di più, per più tempo nel luogo di lavoro, talvolta non curandosi di cosa quella persona abbia davanti sul monitor del proprio pc. Ed esiste, è inutile negarlo, un retropensiero, purtroppo ancora troppo diffuso, per cui assenza fisica voglia significare vacanza, che talvolta magari è anche vero, ma non abbastanza da continuare ad implementare un quadro normativo-contrattuale che ne scongiuri il rischio, senza alzare lo sguardo verso la realtà di un futuro che andrà in una direzione diversa. Dovranno entrare nella nuova cultura organizzativa d’impresa i sistemi di valutazione e sviluppo della prestazione basata sui risultati, riconoscendo e dando valore alle diverse caratteristiche delle persone secondo logiche di equità. L’aspetto più rilevante in questa vicenda rimane a mio avviso quello del controllo: non più il lavoratore al centro dell’attenzione ma il suo lavoro. Non è solo un caso se in Italia, fino ai primi mesi del 2020, i numeri relativi all’utilizzo dello smart working erano bassi rispetto al resto dei Paesi europei: una rigida organizzazione del lavoro fondata sulla necessaria presenza negli uffici; le difficoltà delle micro-pmi nell’acquisire strumenti volti ad una vera riconversione digitale del lavoro; assenza di agevolazioni e di politiche volte a favorire forme alternative di svolgimento del lavoro; poco coraggio nel dialogo tra le parti sociali nella definizione di una contrattazione volta a favorire la produttività e, rimuovendo i troppi pregiudizi, a modernizzare l’organizzazione garantendo una migliore conciliazione tra l’attività lavorativa e la vita sociale, a fronte di una maggiore produttività e competitività delle imprese. La flessibilità di cui si parla spesso nel diritto del lavoro rimane centrale anche nell’implementazione di un modello organizzativo improntato allo smart working. Andrebbe tuttavia intesa in una diversa accezione. Si dovrebbe intendere la nuova esigenza di flessibilità non più come assenza di tutele sindacali, ma come la possibilità per il lavoratore di scegliere i modi e le forme più adatti alle proprie esigenze, creando un modello su misura che possa tornare a mettere al centro l’individuo».

La seconda conseguenza è la sostanziale fine dello straordinario, dunque un abbassamento generalizzato delle retribuzioni. Anche questo è un aspetto che andrebbe normato?

A.: «Lo straordinario è una delle poche cose che potrebbe essere normato per tutta quella fascia di lavoro che a livello impiegatizio svolge lavori di routine, il cui valore è dato dal tempo impegnato. Riguarda molti lavoratori, ma non sono più la maggioranza, perché nel lavoro ad alta intensità intellettuale non è il tempo, ma è la qualità che fa e farà sempre più la differenza e darà valore retributivo. Per questo credo più importante e di interesse comune fare invece forti investimenti in formazione continua, perché le competenze aggiornate sono oggi una vera e propria moneta intellettuale, perché un lavoratore sempre aggiornato non avrà mai problemi nel mercato del lavoro, questa è la vera sfida».

S.: «L’approccio necessario allo sviluppo stabile e duraturo di uno smart working diffuso pone al centro dell’organizzazione la persona, facendo convergere gli obiettivi personali e professionali con quelli aziendali. Solo così si potranno cogliere i segni di una accresciuta produttività aziendale. Ciò significa ripensare l’intera organizzazione e avviare un processo di cambiamento finalizzato a valorizzare il singolo, ad aumentare il suo engagement nel raggiungimento degli obiettivi aziendali garantendogli le condizioni giuste per coniugare vita professionale e vita personale (worklife balance). Se si riuscirà ad affermare un nuovo approccio al lavoro, orientato alla misurazione del livello di raggiungimento dei risultati a cui far corrispondere livelli di premialità, debitamente normati, il concetto di “lavoro straordinario” diventerà immediatamente anacronistico. In assenza di questa nuova definizione culturale, si presterebbe, in teoria, il fianco ad una possibile nuova forma di sfruttamento del lavoro, sottoforma di lavoro straordinario non pagato in quanto difficile da dimostrare».

Lavorare a casa esternalizza costi generalmente sostenuti dalle imprese (luce, connessioni Internet, telefono, rimborsi pasto). E, di conseguenza, cambia anche (purtroppo in peggio) la condizione dell’indotto a partire proprio dal comparto della ristorazione, ora messi ancora a dura prova dai nuovi lockdown. È una condizione sostenibile?

A.: «È un tema molto serio e va affrontato. Esistono aziende nel mondo che sono nate senza uffici, in smart working dall’inizio, come ad esempio ad Automattic, la società che gestisce il software più diffuso al mondo per la creazione di siti Internet, WordPress. In questi casi il risparmio delle aziende in termini di edifici, affitti, mobili, viene investito in attrezzature e benefit per i dipendenti, scrivanie, computer, connessioni e perché no, abbonamenti a palestre o altro. Questo deve essere un punto fermo, il risparmio generato per l’impresa va reinvestito per il lavoratore».

S.: «L’uso diffuso dei modelli organizzativi che prevedono il ricorso allo smart working, richiederebbe un profondo ripensamento anche del vivere sociale, dei luoghi, degli strumenti e dei tempi della socialità. Si dovranno ripensare i luoghi di aggregazione delle città, ridisegnandone inoltre gli spostamenti e gli strumenti legati alla connettività. Non è certo sostenibile la situazione attuale. Si dovrà cercare un nuovo equilibrio, rimettendo in discussione le certezze su cui era fondato il modello di sviluppo economico che abbiamo vissuto fino ad oggi. Si dovrà immaginare e progettare un nuovo paradigma, all’interno del quale far convergere ogni possibile risorsa orientandone la funzione verso un obiettivo di medio-lungo periodo chiaro, univoco e lungimirante. Si dovranno costruire nuove politiche ed immaginare nuovi strumenti normativi in grado di sostenere la spinta innovativa che il futuro ci impone».

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