O patria, o morte!
Forse Castro doveva morire giovane come si confà ad ogni eroe. Arrivati a questo punto il giudizio è invece lapidario e netto; e crediamo di non sbagliarci di molto se, sin da adesso, lo includiamo nella categoria dei più spietati dittatori.
A Cuba, in linea di massima, si sono risparmiati i Gulag e i Lager che invece hanno segnato la nostra geografia politica. Ma il suo più importante obiettivo strategico, quello di una autonomia dagli Stati Uniti, elemento in sé condivisibile, lo ha adempiuto affamando il popolo in maniera indegna e senza alcuna pietà umana.
Se questa idea di auto isolarsi dal mondo per combattere una battaglia anti-imperialista fosse stata assunta liberamente, magari con elezioni democratiche, avremmo oggi considerato quella comunità nazionale come quella più fieramente patriottica della storia recente. Tuttavia, le scelte le faceva uno solo perché fu Castro ad obbligare i suoi connazionali a chiudersi in un angusto recinto, a campare male e soprattutto sulle spalle dei cugini sovietici. Tentò in più frangenti un minimo di autodeterminazione ma il percorso era segnato.
Questa storia è però risaputa. Così come è arcinota la storia di tante donne cubane anelanti vezzi e inutili chincaglierie nostrane e che dunque si resero schiave al servizio di puttanieri occidentali in servizio permanente effettivo i quali mentivano alla loro coscienza autoproclamandosi ‘conquistadores’ del secolo novecento. Il turismo sessuale era infatti conosciuto dalle autorità ma celato pubblicamente. E non capitava nulla di diverso di quanto già non accadesse nell’Est europeo prima della caduta del Muro ma l’evidenza doveva essere negata. Dichiarare tale pratica significava ammettere la sconfitta di un intero progetto ideologico, perché quello non era il Paradiso descritto dai Gianni Minà di turno e le centinaia di migliaia di profughi scappati via, poi rifugiatisi nella vicina Miami, avevano terrore di vivere un solo attimo in più in una isola amata solo dai turisti.
Basterebbero questi pochi elementi per scaraventare Castro in uno dei più terribili gironi danteschi. Ma sappiamo tutti che una personalità debordante e un fenomeno di una tale ampiezza anche mediatica non può ridursi a pochi aggettivi e alle mie poche righe.
Certo, appare abbastanza ovvio che qualunque percorso analitico si voglia seguire, esso non potrà mai essere esente da una ed una sola conclusione: Castro ha rappresentato la versione latino americana del comunismo. Niente di più, niente di meno. Un po’ rum, qualche tirata di sigaro, bella musica, qualche discreto ospedale e, per il resto, fame, sporcizia e miseria.
E allora, perché era meglio morisse giovane? Perché c’è il primo Castro, quello nazionalista, non ancora sfibrato e avvinghiato ad elucubrazioni teoriche. C’è quella fase giovanile, neo-peronista, di chi volle sollevare le masse miscelando il patriottismo con venature di un socialismo epidermico e non ancora mummificato dalla ideologia. Ma quel Castro, per tutta una serie di motivi interni ed internazionali, durò poco. Un battito d’ali. Subito prevalse quello che poi tutti imparammo a conoscere. Quello che insieme ai suoi sgherri rinsaldava fallaci certezze nella ricerca ossessiva del comunismo perfetto, ma al contempo obbligava i connazionali all’inferno sulla terra. Doveva morire giovane. Ecco tutto!