Statolatria e individualismo
Una scorsa rapida alle pagine de L’individualismo statalista (Liberilibri) di Giancristiano Desiderio solleticherebbe impressioni sbagliate e ce lo farebbe inserire nella folta schiera del fronte qualunquistico: <<confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli lettori che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni – come tutti voi – ma mi sono ravveduto e per la politica non nutro più da tempo alcun interesse>>. Leggere poi, in premessa, che bisogna tenersi lontano <<dalle idiozie della politica di destra e di sinistra e di centro e dei leghismi e dei grillismi>> ne darebbe ulteriore conferma.
Ma la scrittura schietta non ottunde un contenuto elaborato che si evince sin dall’ossimoro contenuto nel titolo. Perché l’intento non è solo quello di demolire un triste costume nazionale che ha portato lo Stato a divenire un totem <<che non risolve nessun problema e ci complica la vita dalla culla alla tomba>> e che <<deve elargire diritti per esaudire addirittura desideri, ma siccome il desiderio è infinito e per sua natura non realizzabile, lo Stato è trasportato in un ambito in cui non può effettivamente esercitare la sua funzione, e così è destinato per forza di cose a fallire e alimentare illusioni>>. Ma rammentare – attraverso una ricognizione storica dei processi culturali e politici – che la vera religione degli italiani è uno sciocco individualismo rintanato sotto il mantello della statolatria. Una forma deviata di fideismo che ci dà l’illusione di non essere eccessivamente governati mentre, invece, rappresenta sempre la resa ad una superiore istituzione salvifica, si chiami cattolicesimo, comunismo o statalismo.
Intuizioni che ci rammentano quelle di Giuseppe Prezzolini che, per ovvie ragioni biografiche, si erano fermate al 1982. Questi ulteriori tre decenni confermano, però, la tesi che la cessione di sovranità da parte dei cittadini nei confronti di uno Stato diventato sempre più protettore e inaffidabile sia consapevole e voluta.
Più volte è stato ribadito che questo disfacimento diventato poi stile di vita sia inscritto nella carta d’identità. Il nostro è uno Stato nato con un riconosciuto difetto d’origine; un ‘guasto’ nel Dna per cui vicende politiche diverse in epoche storiche differenti risultano sempre avere un filo rosso che le tiene unite: vale a dire l’assenza di una vera alternanza democratica. Ogni regime politico-istituzionale ha scalzato il precedente, si è più o meno consolidato e poi, ad un certo punto, è imploso per essere sostituito da un altro. E ciò è avvenuto non attraverso un normale gioco di alternanza e di ricambio tra classi dirigenti ma grazie a pseudo rivoluzioni. Un melodramma continuo in cui blocchi di potere rimpiazzano altri impedendo per un certo numero di anni che nuova linfa corrobori i normali processi democratici. In mezzo a tutto ciò, ci sono gli italiani, succubi ma anche compartecipi delle sventure, perché incapaci di maturare una compiuta dimensione civile. La famosa frase attribuita a Massimo D’Azeglio può (e deve) essere letta anche attraverso questa doppia prospettiva.
E allora come si poteva pensare che in una siffatta costruzione nazionale milioni di individui potessero sentirsi vincolati ad un unico destino? Ci ricorda infatti Desiderio che i tre pilastri della vita pubblica moderna sono lo Stato, l’individuo e la nazione, ma nessuno di essi ha mai trovato terreno fertile per una responsabile maturazione.
In primo luogo, perché mai siamo stati culturalmente indipendenti dalla Chiesa, divisi in regni, città, comuni, ducati, ognuno con una propria fisionomia e identità, e pure con la perdurante presenza di qualche ‘straniero’. In secondo luogo perché grazie a queste vicende ci siamo impratichiti in astuzie e furberie di bassa lega ma non in carattere; abbiamo sviluppato virtù intellettiva e raramente virtù morale. E i vizi privati di rado producono virtù pubbliche. Siamo perciò rimasti legati alla divertente ma angosciante contrapposizione tra ‘’furbi e fessi’’ coniata da Prezzolini. Avvinghiati ad una dimensione collettiva dell’esistenza dove a prevalere era il Partito, la fazione o la fede religiosa.
In ultimo, ogni regime si è sempre basato su un blocco di potere che ha assunto di volta in volta variate caratteristiche ma che non ha mai ammesso avvicendamenti. Fu così per la classe dirigente liberale, poi per il fascismo, per la partitocrazia nella Prima Repubblica.
In nessuna fase della nostra storia recente l’insensata anarchia civile e il Leviatano statale hanno dunque permesso lo sviluppo di una dialettica seria che potesse preparare il ricambio delle classi dirigenti. Ed è qui che Desiderio va oltre. L’individualismo statalista non è infatti una calamità ma una costruzione maturata nel tempo perché nel caos organizzato i cittadini italiani si sono rivelati vittime sacrificali ma anche ottimi carnefici.