Cioran, lo scettico estremo
Un saggio su Emil Cioran, articolato e denso di aneddoti e notizie, è stato da poco ripubblicato da Lemma Press con il titolo Cioran. Ritratto di uno scettico estremo (pp.322, euro 22).
Autore è quel Bernd Mattheus, scrittore, saggista e traduttore tedesco, già biografo di Antonin Artaud e Georges Bataille.
Un lavoro che ripercorre la biografia umana e professionale di uno dei più grandi pensatori del Novecento, e che è arricchito da una utile prefazione di Vincenzo Fiore che riportiamo qui di seguito.
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Gli equivoci del genio
[…] sicché non vivono fino alla morte
se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita.
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Leopardi
Al numero 21 di Rue de l’Odéon, nessuno risponde al telefono da giorni. Il 17 aprile 1988 un’agenzia di stampa americana diffonde la notizia del suicidio di Cioran. Si parla di avvelenamento. Alla porta del Privatdenker bussa un giovane trentacinquenne tedesco, Bernd Mattheus, studioso sopraffino con alle spalle già pubblicazioni su altre due figure radicali, come Antonin Artaud e Georges Bataille. Cioran apre la porta in accappatoio, è vivo, e sta provando a riparare un foro in un tubo dell’acqua.
Non pochi, fra i suoi detrattori, gli perdoneranno mai il fatto che sia morto sfinito fra i letti di un ospedale. Emblematico, fu il caso di Alain Bosquet che nel suo testo La mémoire ou l’oubli arrivò a tacciare lo scettico dei Carpazi di pseudo pessimismo morboso, suggerendogli di impiccarsi, di cancellare la sua esistenza come atto di coerenza con i propri scritti. Travestiti da poliziotti con la penna nella custodia, alcuni dei critici letterari hanno investigato nel cercare delle prove, come se un cadavere dovesse certificare la prova tangibile della tragicità dell’esistere. Eppure già i lirici greci cantavano dell’impossibilità di riscattare la dolcezza anteriore alla nascita, se fosse bastato solo un cappio probabilmente Cioran non avrebbe esitato (anche gli antinatalisti contemporanei – fra cui D. Benatar, T. Ligotti e P. W. Zapffe – spiegano perfettamente che ritenere la nascita una catastrofe non suggerisca tesi a favore del suicidio). Ciò che invece ha reso sopportabile la sua esistenza è stata l’idea del suicidio, ovvero la consapevolezza di poter mettere fine in qualsiasi momento alla commedia del vivere: «Tutto il carico amaro dell’esistenza svanisce davanti al pensiero che possiamo arrestarlo in qualsiasi momento, che custodiamo dentro di noi l’immensa libertà della nostra assenza e che possiamo riscattare la nostra caduta in dolori sterili o nella banalità, grazie alla genialità negativa del suicidio. Se non fossimo in grado di immaginare – consolandoci in questo modo – l’opportunità di toglierci di mezzo, l’atto infinito della liberazione di sé, l’esistenza non avrebbe alcuna via di uscita da sé stessa, e la galera del respiro non potrebbe supporre alcun cielo. Quest’idea fa di ognuno di noi un padrone, e il fatto di non tradurla in pratica non ci rende schiavi. Sarà vero che i veri suicidi sono quelli non consumati? Conoscere la cura sicura del male e, ciò nonostante, portarlo ancora oltre» (Divagazioni).
Del resto, ancora oggi, ombre ben più oscure offuscano il pensiero e la vita del pensatore romeno. Non sono pochi coloro che hanno tentato di estrapolare le sue grida e i suoi anatemi per inserirli in tradizioni politiche che nulla hanno avuto a che fare con il suo pensiero. Un’infatuazione giovanile per i legionari di Corneliu Zelea Codreanu mai del tutto scontata, nonostante nei suoi scritti francesi e nelle sue interviste abbondino considerazioni come: «Così come del cancro si dice che non è una malattia ma un insieme di malattie, la Guardia di Ferro era un insieme di movimenti e, più che un partito, una setta delirante» (Apolide metafisico); oppure: «La quantità di imbecilli e di pazzi che ho ammirato! Quando penso al mio passato la vergogna mi sommerge. Tante infatuazioni che mi squalificano» (Quaderni 1957-1972). Bollato non solo come un autore reazionario, ma anche come il Pol Pot della letteratura, Cioran, che mai aveva dato ascolto ai pettegolezzi dei salotti letterari né alle mode accademiche, chiese proprio a Mattheus, che ne curava il testo, quasi per tutelarsi o per evitare di essere ancora strumentalizzato, di eliminare dall’edizione tedesca di Squartamento l’aforisma: «Non appena si esce nella strada, alla vista della gente, sterminio è la prima parola che viene in mente». L’estetica della scrittura sacrificata sull’altare del politicamente corretto, controprova che non occorreva spostarsi nella Spagna franchista per imbattersi nella messa al bando, o quantomeno in delle limitazioni, del pensiero cioraniano. Cioran già da tempo aveva confessato il suo malessere scaturito dagli equivoci, che trascinavano il suo nome in un passato ormai sepolto. L’8 febbraio 1972, amareggiato, egli scriveva al fratello di detestare la prima traduzione italiana de Le mauvais démiurge perché apparsa con le Edizioni de Il Borghese, marchio ancorato alla cultura di destra: «Si ha un bel fare, non si sfugge al passato. Che idiozia!». Ciò nondimeno, egli voltò le spalle anche all’Occidente benpensante che esigeva l’intellettuale impegnato, rifiutando ogni tipo di premio o partecipazione al dibattito pubblico, definendo il progresso un’ingiustizia dei padri nei confronti dei figli e ravvisando i rischi dell’utopia (οὐ «non» τόπος «luogo»; il non-luogo, da nessuna parte).
La necessità di un lavoro rigoroso, come questo di Mattheus, sta nel fatto di restituire ai lettori un profilo non ideologico di una delle penne più controverse del Novecento. Lo studioso tedesco, attraverso l’analisi di documenti e un’attenta ricostruzione delle fonti, stimola la ricerca e ci ricorda quanto materiale, nonostante il moltiplicarsi di studi e pubblicazioni, sia ancora sconosciuto e inedito nel nostro paese. Conoscere la biografia del pensatore romeno significa immergersi nella sua opera, scevri da pregiudizi o da qualche etichettatura giornalistica.
Dissacratore di ogni bandiera, avverso a qualsiasi tipo di fede, Cioran ha recitato il requiem alla filosofia dei sistemi, svelandone gli imbrogli e denunciando chi, come Heidegger, aveva spianato, con gli artifici del linguaggio, la strada ad un tipo di pensiero povero di contenuto e ricco nella forma. Il lascito del filosofo che mai ha pensato di fondare scuole o di elaborare nuove dottrine, è quello di una delle requisitorie più estreme contro l’uomo, contro il mondo e contro Dio; pur essendo consapevole che persino la negazione può essere una catena. L’esistere è svelato, le illusioni sono cadute, le nostre miserie smascherate. Non c’è più spazio per nuove rovine, «l’uomo è il cancro della terra», l’estinzione è una necessità, perché finché c’è vita, non c’è speranza.