Bisogna concedere parecchio all’immaginario per definire in maniera precisa che cosa sia e/o rappresenti, il termine ‘onore’. Quella sorta di provvisoria etica di frontiera, quel relativismo contemporaneo che ha addomesticato le menti e che contraddistingue la nostra epoca, garantisce un cambiamento radicale di valori che hanno perso o tendono a modificare del tutto il loro significato originario. E, così, ci sono parole come queste che ci spiazzano tanto da sembrare addirittura nuove, assumendo i tratti dei più sofisticati neologismi.

Ma il terrorismo verbale, fenomeno irrefrenabile che si nutre di dosi esponenziali di mieloso buonismo, questa volta non è l’unico responsabile della cacciata del termine dai nostri orizzonti culturali e civili perché è la complessiva dimensione della modernità che, nel farci condividere una serie di pseudo-valori e nel farci accettare formati culturali unificanti, deprime e annulla sia l’individuo che il senso della comunità. E l’onore, bisogna ricordarlo, è legato sia all’individuo che alla comunità in una sorta di interdipendenza che, però, almeno in passato lo connotava e lo qualificava in maniera positiva. Al contrario, se tutto è diluito nel globale non vale la pena di sacrificarsi. Oggi siamo di fronte a meccanismi impersonali che ci fanno perdere la consapevolezza del reale significato delle parole, cosicché ci sembra più utile rincorrere obiettivi immediati e concreti: «Nel formicaio – scriveva Jean Cau – nessuno ha un onore. Vi sono soltanto delle regole funzionali. Delle leggi. Quanto meno la morale è affare di ciascuno, tanto più si moltiplicano le leggi. Direi che il numero delle leggi è inversamente proporzionale al senso dell’onore di coloro che le subiscono. E la pace uccide l’onore, il quale come tutte le virtù muore se ogni tanto non viene posto al cimento supremo. Sì, ogni virtù ha bisogno, spasmodicamente di venire esaltata».

Certo nel definire questo termine c’è il rischio che si possa da una parte scadere nella retorica e dall’altra assistere inermi all’ennesimo ‘complesso di minorità’ rispetto alle sensibilità attuali e alla capacità soggettiva di ogni persona di interpretarlo correttamente, ma resta il fatto che esso, se ben inteso, può rappresentare anche una particolare dimensione della libertà.

Per definirlo, bisogna innanzitutto sgombrare il campo da ogni ipotesi di collegamento con stili e contenuti del nostro tempo sempre più caratterizzato dalle nuove forme del pensiero debole anche perché, come ci ricorda Veneziani, «il senso dell’onore è il blasone dell’etica comunitaria». E noi, che viviamo in un’epoca dove non prevalgono né forme, né contenuti di un’etica comunitaria, dobbiamo essere eccessivamente ottimistici per rintracciarne i segni. E poi la convinzione che tutti gli uomini abbiano nascosto, in un angolo della loro anima, questo senso dell’onore da tirar fuori all’occorrenza, quello «stimulo ardente» come lo definiva Guicciardini , è una pretesa oltre che una convinzione azzardata.

L’onore indica il codice morale di un individuo e di un gruppo e deve essere maneggiato con cura. Un utilizzo sbagliato può fargli assumere una vocazione che non gli si addice. Non è un sentimento e non va affrontato in maniera contraddittoria, nonostante su di esso permangono interpretazioni fluide come i suoi sinonimi moderni, ‘salvarsi la faccia’ o ‘pretendere rispetto’, che tendono a farne oscillare continuamente il significato.

L’onore era uno dei principi ispiratori delle società tradizionali e intercettava vari livelli e classi sociali. Si costruiva grazie a una cultura di riferimento, all’ambiente sociale, alla storia e alla geografia. Nel senso che su di esso hanno influito i luoghi e il periodo storico. E questo non è certamente il suo tempo. Una parola, dunque, essenzialmente legata alle società tradizionali, dove forte era il senso comunitario e che, pur tra tante declinazioni, riusciva a mantenere un profilo chiaro. Oggi di quel codice d’onore, che era poi il codice morale dei nostri cavalieri feudali, restano solo dei cascami. Certamente, il ritorno a queste tradizioni nelle forme che i nostri sistemi hanno assunto sarebbe impensabile, oltre che improponibile, e il fatto che si è definitivamente voltata pagina lo aveva compreso già Edmund Burke quando nelle sue Riflessioni ammoniva che al tempo dell’antica cavalleria sarebbe seguito quello dei sofisti, degli economisti e dei calcolatori. Ma sul fatto che l’onore desse un significato trascendente alla vita lo avevano confermato, seppur implicitamente, anche Marx ed Engels che avevano così spiegato la forza e la longevità di questi archetipi: «[…] durante il tempo in cui l’aristocrazia era dominante, i concetti di onore, fedeltà, eccetera erano dominanti, durante la dominazione della borghesia lo erano i concetti di libertà, equità, eccetera».

La sfida che però si presenta è quella della multiformità dei significati e degli utilizzi attuali di questo concetto e, certo, non possiamo rimettere in gioco statiche inquadrature interpretative, visto che non sono mancati nel corso dei secoli punti di vista diversificati. Nell’Etica nicomachea, Aristotele scrive che l’onore è il premio della virtù; Erasmo da Rotterdam («l’onore alimenta la virtù») e Tommaso d’Aquino («l’onore è il premio di qualsiasi virtù») lo legavano alla buona reputazione, quella che, per esempio, acquisivano in battaglia i cavalieri medievali. Così come è stato anche legato al risentimento più pratico per un torto subito o per un affronto, come ci ricorda Machiavelli nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio: «[…] la roba e l’onore sono quelle due cose che offendono più gli uomini che alcuna altra offesa, e delle quali il principe si debbe guardare: perché è non può mai spogliare uno, tanto, che non gli rimanga uno coltello da vendicarsi: non può mai tanto disonorare uno, che non gli resti uno animo ostinato alla vendetta». Tuttavia, nei tempi moderni è la perdita di un senso etico condiviso ad aver provocato un processo di dissoluzione e di corruzione del termine e ad averlo portato su traiettorie meno omogeneamente in linea con quanto descritto finora: il campo si è ristretto dall’onore mafioso al cursus honorum (anche se «il titolo di studio – dirà Marcel de Corte – non tiene conto dei fattori esistenziali alla vita, carattere, volontà, onore, dovere, senso morale e estetico. Il titolo di studio giudica soltanto dell’intelligenza formale e rimane tutt’altra cosa dall’uomo nella sua interezza»). Il nostro immaginario si limita a poche declinazioni e anche «in politica – scrive Veneziani – è rimasta solo la grottesca eredità di un aggettivo tramutato in sostantivo: l’onorevole. Una forma di pomposo ossequio fuori posto e fuori tempo. Nel linguaggio corrente dell’onore sono rimasti in giro due sgradevoli succedanei: l’onorario, eufemismo sussiegoso per un compenso che si preferisce chiamare in modo ipocrita; e le onoranze, che evocano le s pese funerarie». Ma in passato l’onore non era mai scaduto in queste diverse forme di riduzionismo, mentre era sempre stato in relazione a un’etica che fondeva individuale e collettivo. D’Annunzio ha coltivato l’onore della Patria e lo ha fatto in stretta relazione al suo senso estetico che apparteneva alla sua sfera soggettiva. E a Fiume, con qualche migliaio di legionari che ne condividevano i furori ideali, lo sperimentò. Così come accadde per il nazionalismo o per la Resistenza, che pur in tutte le loro variegate sfumature si sono sempre abbeverati alla fonte dell’onore. Certo, anche in questo caso, a fronte di problemi e situazioni nuove, la reale comprensione del termine e della sua ‘applicazione’ si gioca sul filo del rasoio, in un rimando di interpretazioni e re-interpretazioni con tutte le conseguenze che ne possono derivare: «Patria, sacra; sangue versato per essa, santo – scrive Federico Chabod –. Ed ecco che da allora, effettivamente, voi sentite parlare di martiri per l’indipendenza, la libertà, l’unità della patria: i martiri del Risorgimento in genere, e in ispecie i martiri dello Spielberg, di Belfiore, eccetera. Gran mutare del senso delle parole! Per diciotto secoli, il termine di martire era stato riservato a coloro che versavano il proprio sangue per difendere la propria fede religiosa; martire era chi cadeva col nome di Cristo sulle labbra».

E proprio il pessimo uso fatto dalla storiografia moderna delle macerie belliche dell’ultimo secolo ne ha inficiato il valore e il reale significato. Ciò favoriva anche la nascita del senso di appartenenza a un gruppo politico dove si fortificheranno un nuovo senso dell’onore, della dignità, del sacrificio. Ma andando indietro nel tempo potrebbe essere un’interessante operazione intellettuale giungere a una comprensione più profonda del fenomeno controrivoluzionario e poi reazionario, attraverso solo la nota distintiva dell’onore da salvare. Il pensiero cosiddetto reazionario, che non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella nostra cultura, annovera intellettuali come Giacinto de’ Sivo che accettano il rischio dell’incomprensione e della galera per salvare l’onore personale e collettivo. Con simile ottica si muove Spengler che elogia la sentinella di Pompei, che per non essere stato sciolto dalla consegna resta al suo posto ad attendere la fine.

Gianfranco De Turris, nel suo Manualetto di autodifesa per il 2000 e oltre, mostrava tutta la sua attenzione verso una auspicabile «severa disciplina» che potesse far ritrovare «nella propria coscienza e nella propria cultura il seme dei valori perenni, allo scopo di recuperare la Tradizione in modo rivoluzionario ed innovativo».

Onorare la tradizione diventa, dunque, un fatto rivoluzionario, socialmente è l’unica trasgressione possibile. Siamo, tuttavia, spiritualmente fiaccati dalla modernità e perciò sacrificare qualcosa per dei principi diventa pratica complicatissima. L’onore è scaduto, si è laicizzato ed è stato relegato in un angolo, al pari di ogni altra sensazione o sentimento esclusivamente personale; slegato dalla cultura, dagli ideali e, quindi, da una prospettiva comunitaria che lo poteva qualificare positivamente.

Brano tratto da Manifesto antimoderno (Rubbettino editore, pp.80-87)

 

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