Abbiamo compiuto molti parricidi negli ultimi due secoli, tutti incastrati in quel coacervo di tesi e valori che un tempo ridefinivamo e preservavamo sotto l’ampio e, per certi versi, contraddittorio, vessillo della tradizione. Ma quel tempo è, appunto, passato. Dalla morte di Dio all’eclissi del sacro fino alla dissoluzione della famiglia… tutti quei vecchi vincoli sono stati completamente assorbiti dalla nuova società, post-moderna, anonima e spersonalizzante, la cui unica vocazione soggiace alle condizioni dettate dall’espansione economica e dai suoi correlati sociali e politici. Condizioni e vincoli penetrati nel Dna e divenuti carne e sangue del nostro pensare e dell’agire.

Una dissoluzione in vista di un nuovo ordine mondiale (… ecco perché ridefinibile nell’idea del parricidio) dal momento che, per la prima volta nella storia dell’umanità, un modello così totalizzante e coinvolgente è riuscito a sottomettere l’uomo nella sua duplice e esaltante essenza naturale e razionale, e a farlo senza alcuna violenza o imposizione manu militari. Si è fatta avanti, ed evolvendosi sempre più potentemente, una cultura della dissoluzione identitaria con lo scopo nemmeno tanto recondito di demolire sin dal sottosuolo ogni radicamento spirituale e ogni legame sentimentale o emotivo di natura comunitaria. Ogni progetto di vita è stato sottoposto alla valutazione dei nuovi canoni utilitaristici, di cui l’ordalia tecno-scientifica e gli addentellati economici, agevolano la primazia.

Una società costruita su tale saldezza ideologica non può che fare affidamento su un nuovo modello collettivo i cui singoli elementi siano però fiacchi, snervati, anonimi. Modello indagato da Emanuele Ricucci nel suo ultimo libro Contro la folla (Passaggio al bosco edizioni, p.240) soprattutto nei viluppi negativi e grazie all’osservazione minuziosa di tutti i gangli che hanno portato alla sconfitta, o meglio, al declino costante e ineluttabile di quello che lui definisce «l’uomo sovrano». Perché il Tipo umano post-moderno, quello che noi, oggi, rischiamo di diventare (o siamo già diventati!) – quel Tipo di cui molti “pensatori della crisi” ne avevano preconizzato i futuri viluppi – rannicchiatosi nella confortevole posizione del viandante che cerca da ogni parte giustificazioni o cavilli al proprio ininfluente agire, sta accettando una rivoluzione epocale che si dirama in ogni direzione: dalle sconclusionate teorie di genere alle identità neutre, dai nuovi modelli familiari all’azzeramento di differenze culturali e specificità etniche… e il tutto custodito in un linguaggio politicamente corretto, fascinoso e mai criptico, capace poi di smussare ogni spigolo dialettico.

 

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Una rivoluzione totale che trasforma financo la psiche. Come avviene per un qualsiasi software, essa viene infatti costantemente riaggiornata in modo da relegare l’umano, per la prima volta nella storia (è bene ribadirlo con una certa ossessività!), a inerte strumento recettivo senza più alcuna funzione propositiva e primaria. Perché qui non siamo di fronte ad una evoluzione della specie, ad un adattamento darwiniano dove si preservano gli snodi ereditari ma, al contempo, si accettano talune variazioni; non stiamo assistendo, cioè, solo ad una fuga in avanti. Ciò che abbiamo di fronte è una rivoluzione radicale che, come dicevo, è accelerata e favorita dal progresso delle macchine e da una società organizzata su interessi pratici e su un utilitarismo spinto fino all’ennesima potenza che, di volta in volta, possono essere dettati da una azienda di ingegneria genetica, da società che hanno il proprio “core business” legato ad attività di ricerca biotecnologica, o più banalmente da multinazionali che gestiscono social-network, e sempre a scapito di uno Stato nazionale e della libertà del singolo individuo.

Ed è bene intendersi! Qui non si agitano strambe ipotesi complottistiche o ci si fa sostenitori  di cospirazioni demo-pluto eccetera, perché tutto è sotto i nostri occhi e nulla ci viene imposto. Insomma, nulla è celato o imperscrutabile perché la vita biologica, il lavoro, gli hobbie, gli affetti e ogni altra sostanza a fondamento della nostra quotidianità accolgono oramai in maniera diretta e indiretta gli effetti di questa rivoluzione epocale. E il declino dell’uomo sovrano – di cui parla Ricucci – è solo più evidente perché ne riscontriamo gli esiti più immediati sul fronte della svirilizzazione, della femminilizzazione del maschio, dell’incertezza e dell’interscambiabilità dei ruoli che sono però solo alcune delle sue fogge… e nemmeno quelle principali, mentre questo malanno colpisce, al contempo, l’umanità in ogni sua funzione: le relazioni interpersonali in primo luogo, ma poi anche e soprattutto ogni scelta e opzione individuale e collettiva che possa discendere dall’economia e quindi arrivi fino al diritto del lavoro o alla compressione di diritti acquisiti.

Il processo secondo il quale gli uomini non sono più sovrani, per parafrasare il sottotitolo del libro, è iniziato un paio di secoli fa, adducendo come valore la funzione educativa del capitalismo moderno ma si è poi incancrenito in deriva antropologica. Ed è questo il punto, dato che l’uomo è espulso dai suoi vecchi campi d’azione. Viene illuso di essere soggetto con potere di scelta ma è elemento residuale e recettivo. Un produttore di reddito che usufruisce di un habitat sempre più tecnologico che tutto scruta e mette in sicurezza ma che lo circuisce fino a rinchiuderlo in una gabbia mortifera in cui scemano le libertà. Ed è sempre meno un creatore di norme che, invece, vengono esplicitamente imposte da un sistema globale, da questo nuovo ordine che, sul piano politico, soprattutto negli ultimi tre decenni, sta ottenendo ampi margini di agibilità ed è oramai misurabile nelle sue diramazioni più pratiche anche dall’uomo della strada: è infatti sufficiente soffermarsi su un campo altamente modellabile come quello dell’orientamento dei costumi e dei gusti e delle più dozzinali consuetudini, per avere un quadro delle linee di fondo adottate dalla massa globale.

Dunque, Ricucci accusa e invoca, si dilania ma spera. In fondo, ribalta continuamente la lagna del disfattismo con un quadrante volitivo di azioni e di nuova partecipazione, individuale e politica, per svelare uno schema organico di esortazioni e anatemi, infine rovesciati in una proposta positiva, di rivolta e di bellezza, di tradizione e di antichi valori.

Al lettore va però fatta una premessa. La scrittura di Ricucci non è quella classica, talvolta ampollosa, se non proprio polverosa e stantia della saggistica più comune. Qui siamo di fronte ad una scrittura diretta, vibrante e avvolgente. Non solo un grido d’allarme o, al contrario, un’analisi delle cose che non vanno, ma un manifesto di ribellione contro la società di massa e il post-moderno. Un invito a spezzare i legami della nuova socialità e dei non-luoghi per agevolare un capovolgimento ambizioso dell’esistente in cui arte, politica, e persino i rapporti interpersonali possano contribuire ad una comunità più organica e meno finta ed eterodiretta.

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